Autore: Redazione web

16 Ott

Omologazione e approvazione autovelox? Non sono la stessa cosa

di Lucia Izzo

Il Giudice di Pace di Belluno contesta i continui tentativi volti a equiparare omologazione e approvazione, trattandosi di procedure differenti e spettanti a diverse autorità

Omologazione e approvazione sono procedure diverse, che spettano ad autorità diverse. E questo ha valore nonostante oggi si “tenti” in ogni modo di ritenerle sostanzialmente equivalenti. Lo afferma il Giudice di Pace di Belluno, nella sentenza n. 220/2021 (qui sotto allegata), che in qualche modo “richiama all’ordine” le amministrazioni che perseguono nell’utilizzare dispositivi meramente approvati.

La pronuncia origina dal ricorso promosso contro il Comune e riguardante proprio un verbale della Polizia Locale relativo a violazione dei limiti di velocità ai sensi dell’art. 142, comma 7, del Codice della Strada. Trattasi di eccesso di velocità (superamento di non oltre 10 km/h il limite consentito) è stata rilevato con apparecchio elettronico utilizzato in postazione fissa.

Tra le doglianze del ricorrente colgono nel segno quelle riguardanti la mancata omologazione dell’apparecchiatura. Il Giudice onorario, prima di addentrarsi nelle motivazioni che conducono ad accogliere il ricorso, dimostra il suo disappunto per quanto riguarda le sempre più numerosi sanzioni elevate a seguito dell’uso di dispositivi che risultano non omologati, bensì “semplicemente approvati dal M.I.T.”, come quello di cui al caso in esame. Procedure che, a detta del magistrato bellunese, non risultano affatto equiparabili.

Come si legge in sentenza, “di là dei tentativi oggi utilizzati al fine di equiparare omologazione ed approvazione (in considerazione del fatto che le aziende costruttrici degli apparecchi di misurazione della velocità hanno scelto di percorrere la strada dell’approvazione, ritenendola evidentemente sufficiente), si deve ritenere che il primo presuppone specifiche norme tecniche di riferimento, tanto nazionali quanto europee le quali, invece, mancano per il secondo. Dunque, le due procedure sono differenti e spettano ad autorità diverse”.
Omologazione e approvazione sono procedure diverse

La pronuncia in esame va dunque ad alimentare quel filone giurisprudenziale che non dimostra condividere le conclusioni espresse nel parere pubblicato l’11 novembre del 2020, sul sito del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, a firma del Direttore Generale, che invece considera sostanzialmente “equivalenti” le procedure di omologazione e di approvazione di tutti i dispositivi di regolazione e controllo della circolazione stradale (autovelox, telecamere ZTL, photored, ecc.) con la conseguenza di ritenere sufficiente la sola procedura di approvazione per conferire validità all’efficacia degli stessi.

Come si legge nella sentenza del Giudice di Pace di Belluno, le motivazioni per cui tale conclusione non può essere accolta sono molteplici, a partire dal dictum dell’art. 142, comma 6 del Codice della Strada secondo cui “per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate”.

La norma, oltre a parlare di omologazione espressamente, rimanda poi al regolamento di esecuzione e attuazione e, in tale contesto, la distinzione tra le due procedure (approvazione e omologazione) si rintraccia facilmente nell’art. 192 reg. att. C.d.S.: anche se tale disposizione non specifica chiaramente le ipotesi in cui sia richiesta l’una o l’altra, secondo il giudicante “certo è che non possono essere considerati la stessa cosa, posto che, altrimenti, altrimenti non vi sarebbe stata la ragione di due differenti menzioni”.

“Spetterebbe al legislatore chiarire il punto, sotto il profilo tecnico, con riferimento alle diverse tipologie di apparecchi” afferma ulteriormente la sentenza. Ritenendo che anche gli ulteriori commi del medesimo articolo facciano propendere per una sostanziale demarcazione tra approvazione e omologazione, si ritiene che quest’ultima abbia un’importanza maggiore, non trattandosi solo di un atto amministrativo, bensì di procedura avente natura squisitamente tecnica e finalizzata a garantire la perfetta funzionalità e la precisione dello strumento da utilizzare.
Auspicabile l’intervento del legislatore

In ogni caso, si legge in motivazione “non può essere posto in dubbio che, al fine della verifica dell’osservanza dei limiti di velocità ex art. 142, comma 6, C.d.S., debbano considerarsi fonti di prova esclusivamente le risultanze di apparecchi debitamente omologati dal MISE”. Una conferma in tal senso giunge anche dalla giurisprudenza puntualmente richiamata in sentenza, tra cui la sentenza n. 15042/2011 della Corte di Cassazione e, soprattutto, la sentenza n. 113/2015 della Corte Costituzionale.

Il Giudice onorario non manca di rilevare che la questione in oggetto è destinata a rimanere controversa “fino a quanto, da parte del legislatore, non si deciderà di fare definitiva chiarezza” anche in virtù del fatto che la normativa in materia appare “farraginosa” e come tale si presta a “interpretazioni differenti”.

Non ritenendo il giudicante che approvazione e omologazione possano essere intese come la stessa cosa, viene ritenuta prevalente l’esigenza di garantire che i prototipi degli stessi, prima di essere commercializzati e posti concretamente in uso, siano stati sottoposti a precise verifiche tecniche ed esami di laboratorio che ne attestino precisione e affidabilità. Verifiche ed esami che sono il presupposto della procedura di omologazione da parte del MISE e alla quale, se previsto, potrà seguire l’approvazione da parte del MIT.

Il verbale impugnato viene dunque annullato in quanto facente esclusivamente riferimento all’approvazione del MIT e dunque non può essere convalidato. Spese di lite integralmente compensate tra le parti in ragione della materia soggetta a interpretazioni contrastanti.

Fonte Studio Cataldi

16 Ott

Bullizzato dal finto amico: episodio più grave e 20 mila euro come risarcimento per il danno morale

Pomeriggio da incubo per un ragazzino con fragilità psichiche. Per lui botte e offese dal finto amico che lo ha invitato per giocare a casa. Coinvolti come aguzzini anche altri due ragazzi. Evidenti le responsabilità di tutti e tre i bulli: dovranno ora risarcire la vittima delle loro incresciose condotte.
La Redazione

Trib. Forlì, sent., 23 settembre 2021

Condanna sacrosanta per i bulli che prendono di mira un loro amico, già fragile psicologicamente, e ne minano ancora di più la capacità di relazionarsi con le persone.

Ora dovranno non solo assumersi la responsabilità dei loro bestiali comportamenti ma anche versare al giovane bullizzato 20mila euro come risarcimento (Trib. Forlì, sent., 23 settembre 2021).

Scenario della drammatica vicenda è la provincia emiliana. Lì un ragazzino – Paolo, nome di fantasia – viene invitato da un amico a…

Trib. Forlì, sent., 23 settembre 2021
Giudice Vecchietti

Motivazione in fatto e in diritto

Il sig. (…) (di seguito anche “l’attore”) citava in giudizio (…), in persona dei genitori, (…), in persona dei genitori, (…) (“i convenuti”) per sentire accertata e dichiarata la responsabilità dei convenuti nella produzione delle lesioni fisiche e psichiche inferte all’attore per i fatti di causa e per la condanna dei convenuti al risarcimento all’attore di tutti i danni patrimoniali e non quantificati in Euro 70.000,00.

Fonte Diritto e Giustizia

16 Ott

La diffamazione tramite Whatsapp secondo la Cassazione

di Antonella Bua

“Le affermazioni lesive dell’onore e del decoro della persona offesa enunciate sullo status di Whatsapp posso integrare il reato di diffamazione qualora i contenuti ivi presenti siano visibili ai contatti presenti in rubrica”. E’ quanto ha affermato la Cassazione nella sentenza n. 33219/2021.

Il caso di specie
Nel caso di specie, la quinta sezione penale della S.C., si pronuncia in merito al ricorso presentato dal difensore dell’imputato contro la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Caltanissetta, la quale confermava la responsabilità dello stesso per il reato di diffamazione commesso pubblicando nel proprio stato di Whatsapp contenuti lesivi della reputazione della persona offesa e che, in riforma della decisione del Tribunale, concedeva la sospensione condizionale della pena.

Espressioni lesive sullo stato di WhatsApp

Preliminarmente la Corte ha rilevato l’inammissibilità del primo motivo per assenza di specificità, così come risulta inammissibile per novità la questione relativa alla possibilità di escludere la visione dello stato di WhatsApp a tutti o ad alcuni dei contatti presenti, con conseguente limitazione della propagazione delle affermazioni diffamatorie. Pertanto, la pubblicazione di espressioni lesive e diffamatorie sul proprio stato whatsapp, integra, di fatto, il reato di diffamazione, potendo tali affermazioni essere lette da tutti i soggetti presenti nella rubrica dell’imputato e dotati dell’applicazione.

In virtù di quanto suesposto, la Corte di Cassazione, dichiarando inammissibile il ricorso, ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

La Corte ha, altresì, condannato il medesimo alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile liquidate in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge.

Il dispositivo dell’art. 595 c.p.

<<Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate>>.

La ratio legis della disposizione trova il proprio fondamento nella necessità di garantire la reputazione dell’individuo, ovvero l’onore inteso in senso soggettivo, quale considerazione che il mondo esterno ha del soggetto stesso.

I presupposti del reato sono i seguenti:

  • l’assenza dell’offeso, consistente nell’impossibilità che la persona offesa percepisca direttamente l’addebito diffamatorio;
  • l’offesa alla reputazione, intendendosi la possibilità che l’uso di parole diffamatorie possano ledere la reputazione dell’offeso;
  • la presenza di almeno due persone in grado di percepire le parole diffamatorie.

Si tratta di reato di evento, che si consuma nel momento della percezione da parte del terzo delle parole diffamatorie.

La condotta è scriminata nell’ipotesi di esercizio del diritto di cronaca, critica e satira, quando attuata nei limiti di verità, continenza e pertinenza.

Fonte Diritto e Giustizia

16 Ott

Condannato l’uomo che prevarica la compagna e la controlla ossessivamente

Confermata la responsabilità penale dell’uomo, reo di avere sottoposto a maltrattamenti fisici e morali l’oramai ex compagna. Evidente il disagio sopportato a lungo dalla donna.
di Attilio Ievolella

Cass. pen., sez. VI, ud. 13 luglio 2021 (dep. 1° ottobre 2021), n. 35937

Tenere sotto controllo, costantemente, la propria compagna vale una condanna per maltrattamenti. Condanna inevitabile per l’uomo che ha tenuto a lungo un comportamento prevaricatore nei confronti della partner (Cass. pen., sez. VI, 1° ottobre 2021, n. 35937).

Ricostruita la vicenda, i giudici di merito ritengono evidente la colpevolezza dell’uomo sotto processo, reo di avere sottoposto a maltrattamenti – fisici e morali – la propria compagna, tanto da spingerla a rompere la relazione e ad andare via dal…

Cass. pen., sez. VI, ud. 13 luglio 2021 (dep. 1° ottobre 2021), n. 35937
Presidente Fidelbo – Relatore De Amicis

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 8 gennaio 2021 la Corte di appello di Torino ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, assolvendo B.F. dal reato di maltrattamenti in danno della ex convivente G.E. per il periodo successivo al (omissis) e confermando nel resto la sentenza di condanna impugnata, che lo riconosceva responsabile per tale reato irrogandogli la pena di anni uno e mesi quattro di reclusione.

Fonte Diritto e Giustizia

16 Ott

Alcoltest: imputato assolto in caso di dubbi sullo stato d’ebbrezza

di Lucia Izzo

Per il Tribunale di Genova diversi elementi fanno dubitare sullo stato d’ebbrezza dell’imputato, tra cui l’accertamento etilometrico effettuato oltre un’ora dopo l’incidente

Assunzione di farmaci che possono influire sul tasso alcolemico, accertamento etilometrico effettuato oltre un’ora dall’incidente, nonché i risultati identici dei due alcoltest effettuati a distanza di pochi minuti: tutti questi elementi inducono a ritenere sussistenti dubbi concreti sullo stato di ebbrezza dell’imputato. Senza contare l’assenza di omologazione dell’apparecchio utilizzato e le verifiche periodiche non effettate o effettuate in ritardo sullo stesso.

Sono questi gli elementi che hanno indotto il Tribunale di Genova, nella sentenza n. 3744/2021 (qui sotto allegata), a pronunciare l’assoluzione per insussistenza nel fatto nei confronti di un uomo imputato per guida in stato di ebbrezza, accogliendo cosi la richiesta formulata dal Pubblico Ministero.

In dettaglio, al prevenuto, vittoriosamente difeso dagli Avv.ti Mascia Maurizio e Mascia Guido del Foro di Genova, si contesta la violazione dell’art. 186, comma 2, lett. b) e commi 2-bis e 2-sexies del Codice della Strada.

L’uomo era stato sottoposto a controllo dopo che la polizia era intervenuta, di notte, sul luogo del sinistro stradale che lo aveva visto coinvolto in qualità di conducente di una vettura, non di sua proprietà, della quale aveva perso il controllo andando poi a urtare ripetutamente il guard-rail e poi un palo della luce. L’alcoltest aveva rilevato un tasso alcolemico 1,08 g/l alle 4:10 e di 1.08 g/l alle 4:17.
Interferenze sulla prova spirometrica

A seguito dell’audizione di testi e consulenti, nonché acquisiti i necessari documenti, in giudizio emerge come il conducente assumesse un farmaco che poteva avere ripercussioni sull’assunzione di alcol: come sottolinea la difesa, il medicinale avrebbe potuto provocare un aumento del livello ematico nel sangue e dunque interferire sulla prova spirometrica con possibile errore del dato rilevato dallo strumento.

Un assunto la cui riprova è rinvenibile nel fatto che i due test hanno fornito risultati identici, circostanza che non apparirebbe compatibile, né scientificamente né tecnicamente, e neppure confacente con la cinetica di assorbimento dell’alcol nel sangue.

Tra l’altro, la difesa sottolinea come l’accertamento etilometrico, intervenuto dopo 69 minuti dall’incidente, non avrebbe avuto valore legale secondo il D.M. 196/90. Nel verbale, infatti, neppure sarebbe presente alcun elemento sintomatico dell’ebbrezza dell’uomo, che viene descritto come “presente” e con solo po’ di alito vinoso. Solo un prelievo ematico, in sostanza, avrebbe permesso di accertare con sicurezza il tasso di alcol nel sangue.
Ritardo nel rilevamento

In effetti, conferma il Tribunale “questo distacco di rilevamento temporale non appare di per sé definitivamente rassicurante sulla qualità dell’accertamento, in quanto tardivo”, premessa a cui seguono ulteriori considerazioni idonee a incidere sulla qualità tranquillizzante della prova concreta.

In primis, si menziona l’indicato possibile o probabile effetto di interferenza sull’accertamento etilometrico del farmaco che provatamente l’uomo assumeva per inalazione. In secondo luogo, l’assenza di decisivi elementi sintomatici di ebbrezza ulteriore.

Il terzo elemento su cui si sofferma il magistrato è un “dato oggettivo e tecnico” idoneo a porre ulteriori e rilevanti dubbi anche sulla corretta taratura dell’apparecchio in quella circostanza e che deve essere valutato secondo la Curva di Widmark: come noto, questa indica la concentrazione di alcol, in andamento crescente tra i 20 ed i 60 minuti dall’assunzione, la quale assume un andamento decrescente dopo aver raggiunto il picco massimo di assorbimento in detto intervallo di tempo”.
Variazione dei valori accertati

È dato giurisprudenziale, si legge in sentenza, “che i valori possano variare da soggetto a soggetto, dipendendo da numerosi fattori che sfuggono alla possibilità di astratta previsione” e, tra l’altro, nel caso concreto, “i risultati degli alcoltest (tra l’altro eseguiti a più di un’ora dal fatto) esattamente identici, eseguiti alla rilevante distanza di tempo dal fatto sopra indicata, appaiono in contrasto con la previsione della regola generale della Curva”.

Di regola, spiega il magistrato, i valori accertati sono tra loro diversi proprio in virtù del duplice accertamento, che non può essere a distanza inferiore ai 5 minuti, che si inserisce nella fase crescente o in quella decrescente della curva.

I risultati identici dei due scontrini, dunque, sarebbero sintomatici del cattivo funzionamento della macchina. Tra l’altro, come evidenziato dal consulente della difesa, dalla lettura del libretto metrologico dell’apparecchio si evince, non solo, la mancanza dell’omologazione dello strumento, ma anche che le verifiche periodiche erano state effettuate in ritardo o non correttamente mantenute.

In conclusione, residuano dubbi circa l’accertamento concreto dell’ebbrezza dell’imputato mentre guidava al momento del sinistro per cui è processo e, in virtù di tutto quanto esposto, il Tribunale ritiene mancante una prova certa in ordine alla stessa sussistenza del fatto di reato contestato all’imputato. Da qui la piena assoluzione dello stesso.

Fonte Studio Cataldi