Autore: Redazione web

15 Nov

Il reato di ricettazione

di Francesca Servadei

La ricettazione, di cui all’art. 648 c.p., è un reato contro il patrimonio il cui oggetto è costituito da denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto

Il reato di ricettazione è posto in essere, al di fuori delle ipotesi di concorso nel reato, da chi acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un delitto o si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, con il fine di procurare un profitto per sé o per altri.

L’art 648 c.p, che contiene la disciplina questo reato, ha subito importanti modifiche in virtù del recepimento da parte del decreto legislativo approvato dal Cdm il 4 novembre 2021 della Direttiva UE n. 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio con il diritto penale.

Per il reato di ricettazione, il reato presupposto d’ora in poi potrà essere anche di natura contravvenzionale, le pene saranno aumentate se il reato verrà commesso nello svolgimento di un’attività professionale, mentre nei casi di particolare tenuità le pene saranno più elevate rispetto a quanto previsto in precedenza.

Il nuovo testo dell’art. 648 c.p.

Questo il testo dell’art. 648 c.p in base alle modifiche (evidenziate in corsivo) della Direttiva UE:

  1. Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329. La pena è aumentata quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da delitti di rapina aggravata ai sensi dell’articolo 628, terzo comma, di estorsione aggravata ai sensi dell’articolo 629, secondo comma, ovvero di furto aggravato ai sensi dell’articolo 625, primo comma, n. 7-bis. La pena è della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 300 a euro 6.000 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi. La pena è aumentata se il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.
  2. Se il fatto è di particolare tenuità, si applica la pena della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 1.000 nel caso di denaro o cose provenienti da delitto e la pena della reclusione sino a tre anni e della multa sino a euro 800 nel caso di denaro o cose provenienti da contravvenzione.
  3. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del reato da cui il denaro o le cose provengono non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale reato.”
    L’accertamento del delitto presupposto
    Una particolare attenzione deve essere posta sull’accertamento del delitto presupposto: infatti la giurisprudenza della Corte di Cassazione, con un consolidato orientamento (cfr., tra le altre, Cass. n. 3211/1999; Cass. n. 4077/1990; Cass. n. 26308/2010), ha statuito che il reato anteriore non deve essere necessariamente accertato, in quanto la provenienza delittuosa del bene deve desumersi dalla natura del bene stesso e che non necessariamente l’autore dello stesso sia noto (cfr. Cass. n. 9410/1990); da ciò si evince che il delitto presupposto non necessita di un accertamento sotto il profilo soggettivo, né sotto quello oggettivo.
    Elementi del reato di ricettazione

Venendo agli elementi del reato di ricettazione, il soggetto attivo può essere chiunque, ad eccezione di colui che ha concorso nel reato presupposto, e coincide con colui che pone la condotta così come descritta nell’articolo 648.

A proposito di condotta, la ricettazione si configura come reato a forma vincolata, integrato dall’acquisto, dalla ricezione o dall’occultamento di denaro o cose provenienti da delitto o dall’attività di intermediazione posta in essere a tal fine.

Venendo all’elemento soggettivo, la ricettazione può configurarsi se il soggetto agente è certo della provenienza delittuosa del bene che riceve, anche se non ha precisa cognizione delle circostanze di tempo e di luogo del reato presupposto.

Tale consapevolezza, secondo quanto ha statuito la Suprema Corte (con la pronuncia n. 12704/2012) è deducibile da qualsiasi elemento, diretto ovvero indiretto, perciò anche dal comportamento dell’imputato, ovvero dalla insufficiente indicazione, da parte dello stesso, della provenienza della cosa ricevuta, relativamente alla quale è deducibile che il soggetto agente voglia occultarne la provenienza.

Ricettazione e incauto acquisto: differenze tra i due reati

L’individuazione dell’elemento soggettivo è importante al fine di distinguere tale figura di reato con quella del favoreggiamento reale e dell’incauto acquisto; dal Favoreggiamento Reale, articolo 379 del Codice Penale, si distingue in quanto quest’ultimo è caratterizzato dal fatto che l’ipotetica ricezione della cosa mobile avviene nell’esclusivo interesse dell’autore del reato principale, mentre la differenza con l’incauto acquisto (Acquisto di cose di sospetta provenienza, articolo 712 Codice Penale, reato contravvenzionale) consiste nel fatto che l’autore viene punito per una sua negligenza e quindi punito per non aver accertato, prima dell’acquisto, la provenienza illecita del bene.

Il reato di ricettazione: la pena
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La pena prevista per la fattispecie base del reato di ricettazione è quella della reclusione da due a otto anni e della multa da 516 euro a 10.329 euro.

In altri casi, invece, la pena è aumentata. Si tratta delle ipotesi in cui il fatto riguarda denaro o cose che provengono da rapina aggravata ai sensi dell’articolo 628, terzo comma, c.p., di estorsione aggravata ai sensi dell’articolo 629, secondo comma, c.p. o di furto aggravato ai sensi dell’articolo 625, primo comma, n. 7-bis).

Reclusione da uno a quattro anni e multa da euro 300 a euro 6.000 se il reato presupposto è di natura contravvenzionale ed è punito con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi.

Pena più alta se il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.

Durata della reclusione e delle sanzioni ridotte infine per i casi di particolare tenuità in base alle pene previste per il delitto o la contravvenzione presupposti.
Il regime sanzionatorio del reato di ricettazione

Il primo comma dell’articolo 648 del codice penale prevede il regime sanzionatorio della reclusione da due anni ad otto e con la multa da 516 euro ad euro 10.329.

Con il Decreto Legislativo 14 agosto 2013, n. 93, convertito dalla Legge 15 ottobre 2013 n. 119, è stata aggiunta l’aggravante della pena nel caso in cui la cosa mobile provenga dal delitto di rapina aggravata, articolo 628, III comma, c.p., di estorsione ai sensi dell’articolo 629, II comma, c.p., furto aggravato ai sensi dell’articolo 625, I comma, n. 7-bis.

Il recepimento della Direttiva UE 2018/1673 ha aggiunto l’aggravante del reato commesso nell’esercizio di un’attività professionale e l’attenuante che varia in base alla pena prevista per il reato presupposto.

Pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 300 a euro 6.000 se il fatto riguarda denaro o cose che provengono da un reato contravvenzionale punito con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi.

Pena aumentata se il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.

E infine quando il fatto è di particolare tenuità, si applica la pena della reclusione sino a sei anni e della multa sino a euro 1.000 nel caso di denaro o cose provenienti da delitto e la pena della reclusione sino a tre anni e della multa sino a euro 800 nel caso di denaro o cose provenienti da contravvenzione.

La giurisprudenza sul reato di ricettazione

La giurisprudenza sul reato di ricettazione è ricca e significativa.

Con la sentenza 27983/2019, ad esempio, la Corte di cassazione ha ritenuto provato l’elemento psicologico della fattispecie delittuosa in esame dall’accettazione di una proposta contrattuale che sarebbe altrimenti ingiustificabile.

Possiamo poi segnalare la sentenza del 14 novembre 2014 n. 47129, con la quale la Corte ha affermato che non è escluso dall’ipotesi della ricettazione l’avere guidato un’autovettura munita di falso certificato di autorizzazione al transito al parcheggio libero nelle aree riservate agli invalidi rilasciato ad una persona defunta.

Inoltre merita di essere segnalata la pronuncia di legittimità numero 42866/2017, che ha chiarito che la particolare tenuità, che rende meno severa la pena per la ricettazione, deve essere desunta da una valutazione dei fatti complessiva e nella quale siano ricompresi anche le modalità dell’azione, la personalità dell’imputato e il valore economico della “res”.

Tra le pronunce più recenti, citiamo infine la sentenza n. 3233/2021, che ha ribadito che quando un soggetto, oltre ad acquistare supporti audiovisivi fonografici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, li detenga a fine di commercializzazione è configurabile il concorso tra il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.) e quello di commercio abusivo di prodotti audiovisivi abusivamente riprodotti (art. 171-ter Legge 22 aprile 1941, n. 633).


Fonte Studio Cataldi

15 Nov

Presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva di condanna.

Di Annamaria Villafrate

Sì definitivo del Governo al decreto che adegua la normativa interna alla Direttiva UE sulle garanzie della presunzione d’innocenza. Ecco cosa cambia
cartello di innocenza

Il termine “colpevole”, dopo l’approvazione definitiva da parte del Consiglio dei Ministri il 4 novembre 2021 del dlgs che recepisce la Direttiva (UE) 2016/343, non potrà essere pronunciato fino a quando a dichiararlo non sarà una sentenza definitiva di condanna.

Ricordiamo che alla Presidenza, in data 6 agosto 2021, era stato trasmesso l’atto del Governo n. 285 (con relazione illustrativa sotto allegati) ossia lo schema di decreto legislativo contenente le disposizioni necessarie ad adeguare la normativa interna alla Direttiva UE 2016/343, con l’obiettivo di rafforzare alcuni aspetti della presunzione d’innocenza. Testo che di recente ha ricevuto il parere positivo (sotto allegato) della Commissione Giustizia, anche se condizionato da alcune modifiche. Ripercorriamo l’iter di qusto importante provvedimento, analizzando il contenuto originario dell’atto presentato dal Governo, il parere della Commissione Giustizia e infine che cosa cambierà in relazione alla disciplina sulla presunzione di innocenza.

Dichiarazione di colpevolezza da parte delle autorità pubbliche

Dopo il primo articolo, con cui si dà atto dell’integrazione della normativa interna nel rispetto della Direttiva UE 2016/34, il secondo affronta il tema delle “Dichiarazioni di autorità pubbliche sulla colpevolezza delle persone fisiche sottoposte a procedimento penale.

La norma in particolare vieta alle pubbliche autorità di utilizzare il termine “colpevole” per indicare un indagato o un soggetto imputato di un reato fino a quando tale condizione non sarà accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.

In caso di violazione di detto divieto all’interessato spetterà il risarcimento del danno e il diritto di ottenere la rettifica di quanto dichiarato, mentre chi ha trasgredito sarà soggetto alle relative sanzioni penali e disciplinari.

Se la richiesta di rettifica si rivelerà fondata, chi ha reso la dichiarazione di colpevolezza procederà alla rettifica immediatamente o nel limite massimo della 48 ore dalla richiesta, informando chi ha formulato detta richiesta. L’ autorità dovrà anche rendere pubblica la rettifica nelle stesse modalità con cui ha reso la dichiarazione, se poi non sarà possibile, sarà necessario rendere nota la rettifica in modo che abbia comunque lo stesso rilievo e grado di diffusione.

Se poi l’istanza non dovesse essere accolta o se la rettifica non dovesse rispettare le modalità indicate, l’interessato potrà rivolgersi al tribunale e agire con un procedimento d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p. per ottenere la pubblicazione della rettifica nelle modalità previste dal presente articolo.

Rapporti del PM con gli organi dell’informazione

L’art. 3 dello schema di dlgs interviene invece sull’art. 5 del dlgs n. 106/2006, che contiene le “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero”. Norma dedicata ai rapporti del PM con gli organi dell’informazione e che in virtù delle modifiche (evidenziate in corsivo) previste da questo schema di decreto potrebbe assumere la seguente formulazione:

  1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione, esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa.
  2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento.

2 bis. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. Le informazioni sui procedimenti in corso sono fornite in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende e da assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta a indagini e dell’imputato e non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili.

  1. E’ fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio.
  2. bis Nei casi di cui al comma 2 bis, il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia giudiziaria a fornire, tramite comunicati ufficiali oppure tramite conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. Si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 bis e 3.

3 ter. Nei comunicati e nelle conferenze stampa di cui ai commi 2 bis e 3 bis è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza.

  1. Il procuratore della Repubblica ha l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.”

Modificato infine anche l’art 6 comma 1 del dlgs n. 106/2006 , che in virtù delle modifiche previste dovrebbe assumere la seguente formulazione: “Il procuratore generale presso la corte di appello, al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale (l’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizione delle notizie di reato) ed il rispetto delle norme sul giusto processo, nonché il puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti, oltre che dei doveri di cui all’art. 5, acquisisce dati e notizie dalle procure della Repubblica del distretto ed invia al procuratore generale presso la Corte di cassazione una relazione almeno annuale.”

Nuovo articolo dedicato alla garanzia della presunzione d’innocenza

Dopo l’articolo 115, all’interno del codice penale, è previsto l’inserimento dell’articolo 115 bis intitolato “Garanzia della presunzione di innocenza.”

L’articolo, al comma 1 (fatti salvi casi in cui deve essere dichiarata la penale responsabilità dell’imputato o quando il Pm compie atti finalizzati a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o dell’imputato) vieta che l’imputato e l’indagato vengano indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non venga accertata definitivamente con sentenza o decreto penale irrevocabile di condanna.

Il riferimento alla colpevolezza dell’indagato e dell’imputato devono essere limitati da parte dell’autorità giudiziaria nei provvedimenti che presuppongono la valutazione di prove, elementi di prova o indizi, alle sole indicazioni necessarie a soddisfare requisiti, presupposti e condizioni richieste dalla legge.

Se viene violato il comma 1 l’interessato può chiedere la correzione dei vocaboli utilizzati nel termine di decadenza di 10 giorni dalla conoscenza del provvedimento, se necessario a preservare la sua presunzione d’innocenza.

Il giudice procede alla correzione con decreto motivato entro 48 ore dal deposito dell’istanza e se la richiesta viene avanzata durante le indagini preliminari competente alla correzione è il Gip.

Una volta emanato il provvedimento di correzione viene notificato all’interessato e alle altri parti e comunicato al PM, che entro i 10 giorni successivi, a pena di decadenza, possono presentare opposizione allo stesso giudice che lo ha emanato, che dovrà provvedere in camera di consiglio.

Modificati infine anche l’art. 349 comma 2 c.p e l’art. 474 c.p con l’aggiunta del comma 1 bis.

Il parere della commissione giustizia

Come anticipato sullo schema del decreto illustrato è stato richiesto il parere (sotto allegato), che il 20 ottobre la Commissione Giustizia ha emanato, intervenendo sul testo dello schema, a cui ha apportato le modifiche sotto evidenziate in grassetto:

quando il procuratore della Repubblica mantiene personalmente o tramite un magistrato dell’ufficio a ciò delegato, i rapporti con gli organi di informazione, tramite comunicati ufficiali o conferenze stampa, è necessario che la decisione di ricorrere a queste ultime sia assunta con atto motivato che deve indicare le particolare ragioni di interesse pubbliche che la giustificano;
la diffusione di informazioni sui procedimenti penale è consentita solo se è necessaria per proseguire le indagini o perché ricorrono specifiche ragioni di interesse pubblico;
il nuovo articolo 3 bis indicato alla lettera c) dell’art. 3 comma 1 deve essere sostituito dal seguente: “Nei casi di cui al comma 2-bis (ovvero se sussistono ragioni specifiche di interesse pubblico o la diffusione delle informazioni è necessaria per proseguire le indagini) il procuratore della Repubblica può autorizzare gli ufficiali di polizia a fornire, tramite propri comunicati ufficiali oppure proprie conferenze stampa, informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali hanno partecipato. L’autorizzazione è rilasciata con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che lo giustificano. Si applicano le disposizioni di cui ai commi2-bis e 3”;
all’articolo 4 dello schema, dedicato alla garanzia della presunzione di innocenza la Commissione chiede di prevedere un procedimento più snello per correggere l’errore commesso e con il quale è stata violata la presunzione di innocenza del soggetto indagato o imputato;
nel rispetto della Direttiva sul diritto al silenzio e a non autoincriminarsi specificare nell’art. 314 c.p.p “che la condotta dell’indagato che in sede di interrogatorio si sia avvalso della facoltà di non rispondere, non costituisce, ai fini del riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione, elemento causale della custodia cautelare subita”;
modificare il comma 4 del nuovo articolo 115 bis contenuto nello schema di decreto (in base all’art. 10 della Direttiva che si occupa dei mezzi di ricorso) prevedendo che il ricorso contro il decreto che ha disposto la correzione deve essere proposto non al giudice che lo ha emesso, ma all’ufficio del giudice che lo ha emesso.
Cosa cambia sulla presunzione di innocenza dopo il si del Cdm?
Tirando le fila, dopo il si del CdM, la vita degli indagati e degli imputati cambierà decisamente in quanto:
le autorità pubbliche non potranno più presentare i soggetti indagati o imputati appellandoli come “colpevoli”;
solo nel momento in cui interverrà una sentenza penale di condanna definitiva si potrà parlare di “colpevolezza”;
nel caso in cui, detto termine dovesse essere utilizzato, l’indagato o l’imputato potranno chiedere all’autorità di rettificare quanto dichiarato. Se la richiesta sarà fondata l’autorità dovrà provvedere alla rettifica entro 48 ore con le stesse modalità utilizzate per la dichiarazione. Se poi tali modalità non dovessero essere praticabili la rettifica dovrà essere effettuata in modo da avere lo stesso rilievo e diffusione della dichiarazione e della rettifica si dovrà rendere edotto il soggetto interessato;
se poi l’autorità non dovesse effettuare la rettifica o dovesse procedere in un modo diverso da quanto previsto allora il soggetto interessato potrà rivolgersi al tribunale per chiedere la pubblicazione della rettifica.
Limiti stringenti quindi alla possibilità per il Procuratore di diffondere notizie sui procedimenti penali. Tale possibilità sarà consentita solo nel caso in cui sarà strettamente necessario per proseguire le indagini o in presenza di rilevanti ragioni di interesse pubblico. Il Procuratore o un suo delegato potranno rapportarsi con gli organi dell’informazione solo attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa nei casi di maggiore rilievo publico. In entrambi i casi non si potranno utilizzare espressioni lesive della presunzione di innocenza del soggetto.

Anche la stampa naturalmente, quando diffonderà le notizie su un caso giudiziario dovrà fare in modo che la presunzione di innocenza non sia mai messa in dubbio. Stesso rigore formale anche nei provvedimenti emessi durante il procedimento, che verrà meno negli atti che definiranno il giudizio quando il Pm dovrà dimostrare la fondatezza dell’accusa.

Fonte Studio Cataldi

15 Nov

I filmati delle telecamere tra diritto d’accesso e tutela della privacy

Chi resta coinvolto in un sinistro ha diritto ad avere copia di eventuali filmati catturati dagli impianti di videosorveglianza comunale per valutare nelle sedi opportune tutte le responsabilità dei soggetti coinvolti. E il regolamento comunale o il contrario parere di un automobilista antagonista non possono limitare l’esercizio di questa opportunità difensiva che in ogni caso dovrà avvenire nel pieno rispetto della tutela della riservatezza di tutti i soggetti coinvolti.


di Stefano Manzelli – Coordinatore sicurezza urbana
TAR Puglia, sez. II, 2 novembre 2021, n. 1579

Presidente Mangia – Estensore Palmieri

Fatto e diritto

  1. Il ricorrente ha proposto l’odierno ricorso al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento del Comune di Casarano, Comando di Polizia Locale, del 18.05.2021, prot. 17134, notificato in pari data, con il quale – accogliendo parzialmente l’istanza di accesso agli atti del 16.04.2021 (limitatamente al rilascio di copia del solo rapporto dell’incidente stradale) – è stato denegato l’accesso agli atti afferenti i filmati di videosorveglianza del sinistro del 13.04.2021, avvenuto in Casarano, intersezione stradale con le vie Ruffano – Supersano – Viale De Matteis, tra le autovetture Fiat Seicento tg. (…) (condotta dal ricorrente) e Ford Puma tg. (…), con conseguente condanna dell’Amministrazione all’ostensione del chiesto filmato. Il tutto con vittoria delle spese di lite. Costituitosi in giudizio, il Comune di Casarano ha chiesto il rigetto del ricorso, con vittoria delle spese di lite. All’udienza camerale del 27.10.2021 il ricorso è stato trattenuto in decisione. 2. Il ricorso è fondato. 2.1. Il diritto di accesso costituisce situazione attiva meritevole di autonoma protezione ex se, indipendentemente cioè dalla pendenza e dall’oggetto di una controversia giurisdizionale, non costituendo il diritto di accesso una pretesa strumentale alla difesa in giudizio, ma essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita (C.d.S, AA.PP. nn. 5 e 6/2005). 2.2. Pertanto, la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione, ma anche dall’eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre, non avendo carattere strumentale alla difesa in giudizio della posizione soggettiva del richiedente (cfr, ex plurimis: Consiglio Stato, Sez. V, 23 febbraio 2010, n. 1067; Sez. IV, 20 settembre 2012 n. 5047; Sez. III, 13 gennaio 2012 n. 116; Sez. VI, 14 agosto 2012, n. 4566; Sez. V, 22 giugno 2012, n. 3683), dovendo il diritto di accesso essere ricondotto unicamente alla sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante del richiedente che sia meritevole di tutela, collegata alla documentazione cui si chiede di accedere. 2.3. Il diritto di accesso riveste, difatti, valenza autonoma, non essendo stato configurato dall’ordinamento con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante, costituendo tale diritto un principio generale dell’ordinamento giuridico, ispirato al contemperamento delle esigenze di celerità ed efficienza dell’azione amministrativa con i principi di partecipazione e di concreta conoscibilità dell’esercizio della funzione pubblica da parte dell’interessato, e basato sul riconoscimento del principio di pubblicità dei documenti amministrativi, dovendo conseguentemente il collegamento tra l’interesse giuridicamente rilevante dell’istante e la documentazione oggetto di richiesta di accesso, di cui all’art. 22 comma 1, lett. b) della legge n. 241 del 1990, essere inteso in senso ampio, ed essere genericamente mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante dello stesso. 2.4. Il punto è stato di recente ripreso dal Consiglio di Stato, il quale ha ribadito che: “L’avvenuto decorso del termine per impugnare gli atti della procedura non incide sull’attualità dell’interesse all’accesso; non spetta all’amministrazione che detiene il documento valutare le modalità di tutela dell’interesse del richiedente e negare l’accesso per il caso in cui ritenga talune di esse non più praticabili; è solo del privato richiedente, una volta ottenuto il documento, la decisione sui rimedi giurisdizionali da attivare ove ritenga lesa la sua situazione giuridica soggettiva e se per taluni di essi (o per quelli unicamente esperibili) siano già spirati i termini di decadenza (o, eventualmente, di prescrizione) l’eventuale pronuncia di inammissibilità non può, certo, essere anticipata dall’amministrazione destinataria della richiesta di accesso allo scopo di negare l’ostensione del documento” (C.d.S, V, 27.6.2018, n. 3953). 3. Orbene, nella specie, reputa il Collegio senz’altro riscontrabile la sussistenza, in capo all’istante, di un interesse qualificato, diretto, attuale e concreto all’ostensione della richiesta documentazione, strettamente correlato alla difesa di un interesse giuridico, connesso all’accertamento delle reali responsabilità dei conducenti nel sinistro in esame. In particolare, nessun rilievo assumono le giustificazioni addotte dal Comune nella nota di diniego, in cui si oppone il rifiuto opposto dall’altro soggetto coinvolto nel sinistro, nonché quelle esposte in sede di costituzione nell’odierno giudizio (il contrario tenore del locale Regolamento relativo al trattamento dei dati personali e le finalità degli impianti di videosorveglianza). Sul punto, è sufficiente rilevare che, ai sensi dell’art. 24 co. 7 l. n. 241/90: “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. …”. Orbene, nel caso di specie, la visione dei filmati di sorveglianza relativi al citato sinistro del 13.4.2021 è strettamente correlata alla difesa degli interessi giuridici del ricorrente, essendo di intuitiva evidenza che soltanto l’accertamento della reale dinamica del sinistro consente di appurare in maniera certa le responsabilità dei soggetti in esso coinvolti. In particolare, non può ritenersi sufficiente a tal fine il rapporto redatto dalla Polizia Locale, in quanto esso risente della personale valutazione della dinamica del sinistro operata dai verbalizzanti, la quale potrebbe, in astratto, non essere strettamente aderente all’accadimento dei fatti. Viceversa, la ricostruzione della dinamica del sinistro operata sulla base dei filmati di videosorveglianza esclude qualsiasi valutazione e, dunque, anche eventuali errori umani, in quanto fondata su dati certi e oggettivi. Alla stessa stregua, non colgono nel segno le obiezioni fondate sul locale Regolamento sugli impianti di sorveglianza, per la semplice e dirimente ragione che la fonte del diritto di accesso è la legge dello Stato (art. 22 ss. l. n. 241/90), da ritenersi prevalente – sulla base dei normali principi in tema di gerarchia delle fonti – sul Regolamento locale 4. Per tali ragioni, in accoglimento del ricorso, va ordinato al Comune di Casarano di mettere a disposizione del ricorrente, entro gg. 30 dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza o, ove antecedente, dalla data di notificazione della stessa, di cui parte ricorrente è espressamente onerata, tutti i filmati di videosorveglianza relativi al sinistro del 13.04.2021, avvenuto in Casarano, intersezione stradale con le vie Ruffano – Supersano – Viale De Matteis, tra le autovetture Fiat Seicento tg. (…) e Ford Puma tg. (…). In difetto, si provvederà alla nomina del commissario ad acta, su apposita istanza della parte interessata. 5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Seconda definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e ordina per l’effetto al Comune di Casarano di mettere a disposizione del ricorrente, entro gg. 30 dalla pubblicazione della presente sentenza, tutta la documentazione indicata al punto n. 4 della parte motivazionale. Condanna il Comune di Casarano al rimborso delle spese di lite sostenute dal ricorrente, che si liquidano in € 1.000 per onorario, oltre rimborso contributo unificato, spese generali e IVA come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Fonte Diritto e Giustizia

6 Nov
25 Ott

Cassazione: anche l’autovelox mobile ‘invisibile’ va segnalato

di Lucia Izzo

Gli Ermellini confermano che anche i dispositivi di rilevazione della velocità con modalità dinamica, come lo Scout Speed, sono sottoposti all’obbligo di presegnalazione scout speed installato dentro una macchina

Anche i dispositivi di rilevamento della velocità con modalità dinamica, come il c.d. “Scout Speed”, sono sottoposti all’obbligo di presegnalazione della postazione di controllo stabilito dal Codice della Strada.

Tale obbligo proviene da una norma di rango superiore (legge ordinaria dello Stato) che dunque non può essere derogata da norme di rango inferiore e secondario quali, ad esempio, quelle contenute in decreti ministeriali. Queste ultime, in caso di contrasto, cedono di fronte alla norma superiore e vanno disapplicate dal giudice ordinario.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, nell’ordinanza n. 29595/2021 (qui sotto allegata) respingendo il ricorso del Comune e confermando le pronunce di merito che avevano dato ragione a un conducente, vittoriosamente assistito nei tre gradi di giudizio dall’avv. Fabio Capraro di Treviso.
Postazioni di rilevamento velocità: preventivamente segnalate

L’uomo, sanzionato ex art. 142, comma 8, C.d.S. per violazione dei limiti di velocità, aveva intrapreso le vie legali lamentando il mancato rispetto dell’obbligo di presegnalazione della postazione di controllo della velocità costituita, nel caso di specie, dal c.d. Scout Speed, installato sulla vettura in dotazione ai Vigili urbani del Comune.

Sia in prime che in seconde cure viene confermata l’illegittimità della sanzione amministrativa, stante il mancato rispetto dell’obbligo previsto dall’art. 142 comma 6-bis, a mente del quale le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili.

Tuttavia, il Comune contesta tale decisione rappresentando come il decreto del MIT del 15 agosto 2007, emesso per la determinazione delle modalità di impiego delle postazioni controllo della velocità, prevedesse l’esonero dall’obbligo di presegnalazione per strumenti di rilevamento della velocità con modalità dinamica, come lo Scout Speed. Disposizione poi confermata dal successivo D.M. n. 282 del 13 giugno 2017.

L’interpretazione di queste norme, che andrebbero ad esonerare dall’obbligo di preventiva segnalazione i dispositivi rilevamento in maniera dinamica, ovvero “ad inseguimento”, installati a bordo dei veicoli, ha portato molte amministrazioni a prediligere i rilevatori mobili, come ad esempio lo Scout Speed, in luogo di quelli fissi, ritenendo di poter in tal modo “sfuggire” al vincolo di trasparenza imposto dal Codice della Strada. La Corte di Cassazione smentisce definitivamente questa ricostruzione.
Obbligo generale stabilito da norma di legge

Gli Ermellini, respingendo integralmente il ricorso del Comune, precisano che, anche se l’art. 142, comma 6-bis rimette a un decreto del Ministro dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’interno, il compito di stabilire le modalità di impiego delle postazioni di controllo della velocità e delle modalità di segnalazione delle stesse, tale previsione attuativa “opera nell’ambito del generale obbligo di segnalazione preventiva e ben visibile” previsto dalla stessa disposizione del Codice della strada.

Tale norma, spiega il Collegio, “in quanto legge ordinaria dello Stato è fonte di rango superiore e non può essere derogata da una di rango inferiore e secondario come quella emanata con il decreto ministeriale sicché, ove si manifesti un contrasto fra le previsioni della legge e quelle del decreto ministeriale, è quest’ultimo che cede dovendo essere disapplicato dal giudice ordinario”.
Come si legge nell’ordinanza, il disposto di cui all’art. 142, comma 6-bis, C.d.S., rimette al decreto ministeriale la “mera” individuazione delle modalità di impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi al fine di presegnalare la postazione di controllo, senza alcuna possibilità di derogare alla generale previsione dell’obbligo di preventiva segnalazione, né da parte del regolamento di esecuzione né, a maggior ragione, da parte del decreto ministeriale stesso.

Ed è in tale prospettiva che va apprezzato, secondo la Cassazione, il tenore degli artt. 1 e 2 del menzionato D.M. 15 agosto 2007, previsioni che distinguono le modalità di impiego e di segnalazione della strumentazione che costituisce la postazione di controllo in termini differenti, che possono consistere in segnali stradali di indicazione, temporanei o permanenti, ovvero in segnali stradali luminosi a messaggio variabile, ovvero in dispositivi di segnalazione luminosi installati sui veicoli.
Niente deroga da norme secondarie

Appare evidente, dunque, che “le molteplici possibilità di impiego e segnalazione sono correlate alle caratteristiche della postazione, fissa o mobile, sicché non può dedursi alcuna interferenza negativa che possa giustificare, avuto riguardo alle caratteristiche tecniche della strumentazione impiegata nella postazione di controllo mobile, l’esonero dall’obbligo della preventiva segnalazione”:

L’art. 1 del D.M. del 2007 consente, infatti, di adattare le modalità di impiego e di segnalazione al tipo di postazione, contemplando tra l’altro, in attuazione del generale obbligo di preventiva e ben visibile segnalazione, la possibilità di installare sulle autovetture dotate del dispositivo Scout Speed messaggi luminosi contenenti l’iscrizione “controllo velocità” o “rilevamento della velocità”, visibili sia frontalmente che da tergo, così assicurando il rispetto delle previsioni di legge e la legittimità del rilevamento anche per le postazioni di controllo mobili operanti sulla rete stradale.

In conclusione, spiega la Cassazione, quanto previsto dall’art. 3 del D.M. del 15 agosto 2007 non può costituire, come affermato dal Comune ricorrente, una legittima deroga al disposto dell’art. 142, comma 6-bis del Codice della Strada.

Fonte Studio Cataldi

25 Ott

Il rifiuto di sottoporsi ad alcoltest è legittimo in assenza di danni

di Antonio Sansonetti

Per la Cassazione, il rifiuto di sottoporsi all’alcoltest non integra necessariamente un reato. Il rifiuto è legittimo se non emergono elementi di pericolo

Rifiutare di sottoporsi ad alcoltest non integra necessariamente reato. E’ quanto emerge dalla sentenza n. 36548/2021 della Cassazione (sotto allegata).

La vicenda
Nella vicenda, il ricorrente, non avendo rispettato un semaforo rosso, veniva fermato per un controllo. Di fronte alla richiesta degli organi accertatori di sottoporsi ad accertamento alcolimetrico, lo stesso opponeva un secco rifiuto salvo poi tonare sui suoi passi e dirsi disponibile al test.

A quel punto gli accertatori decidevano di non procedere al controllo ritenendo già integrato il reato.

L’iter processuale

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano di conferma della condanna emessa dal Tribunale di Monza, per aver l’imputato rifiutato l’alcoltest a seguito di controllo mentre era alla guida della sua autovettura (art. 186 Co 7 del Codice della strada), veniva proposto ricorso per cassazione.

A motivo del ricorso veniva addotta, invocando costante giurisprudenza di legittimità, la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis del codice penale.

Rifiuto alcoltest e tenuità del fatto

Affermano gli Ermellini, richiamando l’orientamento delle Sezioni unite circa il corretto inquadramento della tenuità del fatto, che il comma 7 dell’art. 186 CDS punisce il rifiuto a sottoporsi al controllo, quando questo è concomitante alla presenza di danni (incidente o investimento).

La condotta tenuta dall’imputato non ha integrato, secondo la Suprema Corte, una particolare pericolosità, essendo oltretutto solo sommariamente indicate nella sentenza di secondo grado le circostanze nelle quali l’imputato veniva fermato.

La Cassazione ha quindi accolto i motivi di ricorso ritenendo che la volontà di non di sottoporsi al test da parte dell’imputato, possa beneficiare (in assenza di danni) della particolare tenuità del fatto ai sensi dell’articolo 131-bis cp.

Fonte Studio Cataldi

25 Ott

Codice della Strada: va motivata l’impossibilità della contestazione immediata

Di Lucia Izzo

Il Giudice di Pace di Frosinone ribadisce la necessita che la P.A. motivi espressamente sulle ragioni che non hanno reso possibile la contestazione immediata

Il verbale notificato al trasgressore, che contiene gli estremi precisi e dettagliati della violazione, deve altresì motivare espressamente in ordine alle ragioni per cui si è dovuto ricorrere alla contestazione differita, non essendo stato possibile agire in via immediata. Spetta alla P.A., infatti, l’onere di dimostrare la sussistenza della violazione amministrativa.

Lo ha chiarito il Giudice di Pace di Frosinone nella sentenza n. 632/2021 (qui sotto allegata) pronunciandosi su un’opposizione a sanzione amministrativa promossa da un conducente, vittoriosamente assistito dall’avv. Dario Simonelli, destinatario di un verbale per violazione degli artt. 148, comma 11 (soprasso vietato), 141, comma 11, e 7, comma 14, del Codice della Strada.

Il ricorrente, nell’impugnare il verbale, eccepisce la mancanza di prova delle infrazioni commesse, stante anche la mancata contestazione immediata dell’infrazione e l’incompletezza della motivazione resa nel verbale gravato.
La P.A. deve dimostrare la sussistenza della violazione amministrativa

In effetti, conferma il giudice onorario, nella copia del verbale notificato al ricorrente non si legge la motivazione per la quale la contestazione non è stata effettuata, poiché la frase risulta incompleta. E l’Amministrazione è rimasta contumace senza depositare documentazione a sostegno della sua pretesa.

Il Giudice di Pace rammenta come l’art. 201 C.d.S. prescriva che, quando la violazione non può essere immediatamente contestata, il verbale contenente gli estremi precisi e dettagliati della violazione e l’indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata dovrà essere, entro 90 giorni dall’accertamento, notificato all’effettivo trasgressore.

La norma, spiega la sentenza, “è finalizzata a tutelare il diritto di difesa, tanto più se si considera che è onere della P.A. dimostrare la sussistenza della violazione amministrativa, depositando, inoltre, la documentazione relativa cl contesto”, mentre nel caso di specie l’amministrazione è rimasta contumace senza depositare alcunché. Ed è per tali motivi che il giudicante ritiene di accogliere la domanda ai sensi dell’art 7, penultimo comma, della Legge n. 150/2011 sotto il profilo dell’insufficienza di prova.

Contestazione immediata a tutela del diritto di difesa

La pronuncia si innesta nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di ammissibilità della contestazione differita. Anche la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 8837/2005) ha precisato come la contestazione immediata di cui all’art. 201 C.d.S. assuma “un rilievo essenziale per la correttezza del procedimento sanzionatorio” svolgendo una funzione strumentale alla piena esplicazione del diritto di difesa del trasgressore.

Di conseguenza, “la limitazione del diritto di conoscere subito l’entità dell’addebito può trovare giustificazione solo in presenza di motivi che la rendano impossibile, i quali devono essere, pertanto, espressamente indicati nel verbale, conseguendone altrimenti l’illegittimità dell’accertamento e degli atti successivi del procedimento”.

La necessità di indicare espressamente le ragioni, tra quelle previste dall’art. 201 C.d.S., per cui non è stato possibile procedere alla contestazione immediata della violazione al trasgressore è stata recentemente ribadita anche Tribunale di Reggio Emilia, nella sentenza n. 511/2020, nei confronti di un conducente che era stato “pizzicato” dallo Scout Speed a viaggiare oltre i limiti di velocità consentiti.

Anche in tale occasione il giudice ha posto l’accento sulla “funzione strumentale alla piena esplicazione del diritto di difesa” che svolge la contestazione immediata imposta dall’art. 201 del Codice della Strada.

Analogamente il Giudice di Pace di Gaeta che, nella sentenza n. 362/2020, ha ribadito (richiamando una Circolare del Ministero dell’Interno in materia di accertamento in forma postuma delle violazioni) che se la contestazione immediata della violazione non è stata materialmente possibile, nel verbale andrà “riportata in modo esaustivo e completo congrua enunciazione dei motivi che l’hanno impedita”.

Fonte Studio Cataldi

16 Ott

Condannata la madre che pubblica video e foto della figlia minore sui social network senza il consenso del padre.

La Redazione
Trib. Trani, ord., 30 agosto 2021

Un padre proponeva reclamo nei confronti del provvedimento che dichiarava inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., finalizzato ad ottenere la condanna della ex moglie alla rimozione dai social network di immagini e video della figlia minore, in quanto pubblicati senza il suo consenso.

Il ricorso è fondato. Il Tribunale di Trani, infatti, afferma che «i requisiti del fumus e del periculum vengono valutati anche tenendo conto di elementi quali l’a-territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile». Secondo i Giudici la madre, postando i video della figlia minore su Tik Tok ha violato diverse norme comunitarie, internazionali e interne: l’art. 8 Reg. n. 679/2016, infatti, considera l’immagine fotografica dei figli come un dato personale, ai sensi dell’art. 4, lett. a), b) e c) del c.d. Codice della Privacy (d.lgs n. 196/2003) e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata; nel caso di minori di sedici anni, inoltre, occorre il consenso alla pubblicazione da parte di entrambi i genitori e di comune accordo, «senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore» (art. 97 l. n. 633/41).

Nel caso di specie, manca del tutto il consenso del padre alla pubblicazione dei video: l’accesso al profilo social della moglie, infatti, non può considerarsi come accettazione alla pubblicazione delle foto della minore, così come non rileva l’intervenuta transazione tra i coniugi, non contenente alcun riferimento alla pubblicazione di immagini della figlia sui social.

Per il Tribunale, inoltre, essendo comprovato che la minore all’epoca della pubblicazione dei video avesse nove anni, ricorda che «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati. Dunque, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network, sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente» (Trib. Mantova, 19 settembre 2017).

Per questi motivi, il Tribunale di Trani accoglie il reclamo e ordina alla madre:

di rimuovere le immagini, i dati e le informazioni che si riferiscono alla figlia e che sono inseriti nei social network;
dalla comunicazione del provvedimento, di diffondere immagini, informazioni e dati che si riferiscono alla minore senza il consenso espresso anche del padre;
di versare 50 euro sul conto della minore per ogni giorno di ritardo nell’eseguire l’ordine di rimozione.
Trib. Trani, ord., 30 agosto 2021
Presidente Binetti – Relatore Guerra

Svolgimento del procedimento

Con ricorso depositato il 6.7.2021 Il padre ha proposto reclamo avverso l’ordinanza n. 1544/2021 del giudice monocratico del Tribunale di Trani, depositata il 18.6.2021, e comunicata il 22.6.2021, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto dall’odierno istante per la condanna di Caia, coniuge da cui è legalmente separato a partire dal 2019, alla rimozione dai social network ed inibizione di pubblicazione di immagini e video della figlia minore ……, nata il …..2011, in quanto pubblicati senza il consenso del padre. In particolare, il Tribunale ha fondato la decisione di inammissibilità sulla mancata indicazione del giudizio di merito che il ricorrente in primo grado avrebbe intrapreso in caso di accoglimento della domanda cautelare.

A sostegno del gravame, il reclamante ha rilevato che l’ordinanza impugnata sarebbe fondata sulla non corretta interpretazione della disciplina del provvedimento cautelare atipico e del contenuto del ricorso, da cui era possibile evincere l’instauranda azione di merito. Tutto ciò premesso, ha chiesto la revoca dell’ordinanza reclamata ed il conseguente accoglimento della domanda di cautelare, il tutto con vittoria delle spese della doppia fase processuale.

La reclamata, nonostante la regolare notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione di udienza, avvenuta il 26.7.2021 all’indirizzo pec del procuratore costituito nella fase cautelare, non ha inteso partecipare al gravame.

All’udienza del 24.8.2021 il Collegio, udita la discussione orale del procuratore di parte reclamante, si è riservato per la decisione.

Motivi della decisione

Il proposto reclamo può trovare accoglimento per le ragioni di seguito indicate.

In via generale, la necessità della formulazione, nel ricorso cautelare, dell’eventuale azione di merito è stata desunta dalla giurisprudenza in via di interpretazione teleologica al fine di

consentire al Giudice adito il controllo della propria competenza, la verifica del rapporto di strumentalità fra la tutela cautelare richiesta e l’azione di cognizione i cui effetti si intende anticipare o assicurare provvisoriamente ed infine la calibrazione dell’istruttoria in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto.

A più riprese la giurisprudenza di merito ha affermato che “La mancata indicazione nel ricorso cautelare delle conclusioni di merito comporta l’inammissibilità dello stesso, sempre che dal tenore dello stesso non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito; in altre parole, il ricorso contenente una domanda cautelare proposta prima dell’inizio della causa di merito deve contenere l’esatta indicazione di quest’ultima o, almeno, deve consentirne l’individuazione in modo certo, in quanto solo tale indicazione consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta” (si veda, Trib. Roma, 16.4.2020; Trib. Lodi, 23.8.2019; Trib. Torino, 15.1.2018).

Tale orientamento è stato fatto proprio dal Giudice della cautela il quale ha fondato la propria decisione sulla scorta della mancata indicazione, neppure di massima, da parte del ricorrente dell’eventuale instauranda azione di merito.

Non può però prescindersi dal dato sistematico in quanto alcuna norma positiva sanziona con la nullità o l’inammissibilità l’omessa indicazione del contenuto della causa di merito futura.

Conseguentemente, in distonia con il suindicato orientamento, deve ritenersi che la sola mancata indicazione nel ricorso ex art. 700 c.p.c. delle conclusioni di merito non potrebbe comportare l’inammissibilità dello stesso se dal suo tenore complessivo fosse possibile dedurre il contenuto del futuro giudizio.

In altri termini, poiché tale elemento costituisce semplicemente un requisito di carattere teleologico, ricavato sistematicamente in funzione dello scopo dell’atto, è evidente che non occorre il rispetto di formule solenni e sacramentali, e neppure l’esposizione di precise conclusioni di merito (che in molti casi risulterà addirittura impossibile formulare); è invece sufficiente, nella prospettiva del conseguimento dello scopo dell’atto (art. 156, commi 2 e 3 c.p.c.) che dal ricorso sia possibile desumere con sufficiente precisione il tenore della domanda di merito a cui la tutela cautelare invocata risulta preordinata.

Tale conclusione tiene conto delle peculiarità della fattispecie in esame in cui vi è totale coincidenza fra il tenore della richiesta cautelare e il contenuto della pronuncia di merito futura (condanna alla rimozione dei video e foto pubblicati sui profili social della madre e inibizione, per il futuro, alla pubblicazione di ulteriori senza il consenso del padre) che è lecito evincere dall’intero ricorso, letto secondo buona fede e ragionevolezza. Appare, infatti, evidente che il ricorrente mira ad ottenere ora, urgentemente e in sede cautelare, quella stessa pronuncia che potrebbe richiedere poi in sede di ordinaria cognizione.

Inoltre, tale interpretazione, più attenta all’aspetto sostanziale, è coerente con la nuova disciplina dei provvedimenti cautelari atipici a contenuto anticipatorio, introdotta dal D.L. n.

35/2005 e caratterizzata dalla forte attenuazione per i provvedimenti anticipatori del c.d. vincolo di strumentalità, con conseguente non necessità di instaurazione del giudizio di merito.

Il referente normativo della natura eventuale della fase a cognizione piena è rappresentato dal sesto comma dell’art. 669 octies c.p.c., che esclude l’applicabilità dell’art. 669 novies primo comma c.p.c. (inefficacia del provvedimento cautelare a seguito di mancata instaurazione del giudizio di merito entro il termine perentorio fissato dal giudice della cautela e comunque oltre i sessanta giorni) per i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito”.

Per tali ragioni, dunque, il reclamo deve essere accolto con riforma integrale del provvedimento impugnato.

Passando all’esame del merito, la domanda proposta in primo grado può trovare accoglimento, sussistendo entrambi i requisiti per la concessione della tutela cautelare. Appare opportuno ribadire, come già precisato da questo Tribunale in analoga fattispecie, che “i requisiti del fumus e del periculum vengono valutati anche tenendo conto di elementi quali l’a – territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile” (Trib. Trani, ord. 7.6.2021). Il fatto storico è incontestato, in quanto la stessa Caia, nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado (depositata il 4.6.2021) non ha negato di aver postato i video della minore ……. sul social network Tiktok a partire dal maggio 2020. Tale comportamento integra violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali:art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York del 20.1111989 ratificata dall’Italia con L. n. 176/1991 (in particolare, l’art. 1 prevede l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto mentre l’art. 16 stabilisce che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge

contro tali interferenze o tali affronti”); art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018) che considera l’ immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.Lgs n. 196/20039 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633/41). In tale prospettiva, il legislatore italiano, all’art. 2 quinquies del D.Lgs. 101/2018 ha fissato il limite di età da applicare in Italia a 14 anni.

Nel caso di specie non vi è prova del consenso del padre alla pubblicazione di tali video. Non può trovare accoglimento la tesi difensiva della … secondo cui i Tizio era a conoscenza della

pubblicazione degli stessi avendo egli accesso al profilo della moglie. La possibilità di visionare un profilo social non equivale ad accettazione della pubblicazione di video e foto ritraenti la figlia minore. La proposizione del ricorso cautelare, seppur a distanza di qualche mese dalla pubblicazione, è espressione del dissenso, i.e. mancato consenso, del genitore. Né può tener luogo del consenso l’intervenuta transazione del 22.4.2021 regolante aspetti

patrimoniali dei rapporti familiari e non contenente alcun riferimento alla pubblicazione di foto e video sui social da parte dei due genitori.

È inoltre incontestato che la minore … al momento della pubblicazione dei video e foto aveva circa nove anni.

Oltre al prospettato fumus boni iuris sussiste, altresì, il periculum in mora, in quanto, come precisato dalla giurisprudenza di merito, “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati. Dunque, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente” (cfr. Trib. Mantova, 19.9.2017). Alla luce delle suesposte considerazioni, dunque, il provvedimento gravato deve essere integralmente riformato con conseguente accoglimento della domanda cautelare e condanna di Caia alla rimozione dai propri profili social delle immagini relative alla minore … … ed alla contestuale inibitoria dalla futura diffusione di tali immagini, in assenza del consenso di entrambi i genitori.

Infine, merita accoglimento la richiesta di condanna ex art. 614 bis c.p.c., tenuto conto della necessità, nella vicenda in esame, di tutelare l’integrità della minore e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonché, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti.

L’accoglimento del reclamo impone una nuova statuizione sulle spese da porsi a carico della reclamata soccombente e da liquidarsi in dispositivo, secondo lo scaglione valoriale, previsto dal D.M. n. 55/2014 e s.m.i. per le controversie di non particolare complessità (da ? 5.200,00 a 26.000,00) e con esclusione della fase istruttoria, tenuto conto della natura documentale del procedimento.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sul reclamo avverso

l’ordinanza del giudice monocratico del Tribunale di Trani n. 1544/2021 depositata il 18.6.2021 e comunicata il 22.6.2021 nel procedimento iscritto al n. 3445/2021 R.G.A.C.C., proposto dal padre con ricorso depositato il 6.7.2021 così provvede:

  1. accoglie il reclamo e, per l’effetto, riforma integralmente il provvedimento impugnato;

sempre per l’effetto, in accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., dispone che … provveda, entro il 10.9.2021, alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore…, inseriti su social networks, comunque denominati;

  1. inibisce dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione

sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso di Il padre;

  1. determina ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima;
  2. condanna Caia a rifondere al padre le spese della fase cautelare e di quella del reclamo, che si liquidano in complessivi Euro 250,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per onorari, oltre rimborso forfettario del 15% delle spese generali, CPA e IVA, come per legge.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito.

Così deciso in Trani il 30 agosto 2021.

Fonte Diritto e Giustizia

16 Ott

Reato lasciare i cani in auto per ore

di Annamaria Villafrate


La Cassazione afferma che per integrare il reato di abbandono non occorre il dolo e la sofferenza dell’animale si desume dalla incompatibilità della detenzione con la sua natura

Ai fini della configurazione del reato di abbandono non occorre che vi sia la prova delle sofferenze e che le stesse siano inferte volontariamente. La sofferenza arrecata all’animale è desumibile dal contesto. Va quindi confermata la condanna alla pena dell’ammenda irrogata ai due imputati, responsabili di aver lasciato due cani di grossa taglia all’interno dell’auto la notte di Capodanno senza acqua. Questo quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 36713/2021

La vicenda processuale
In primo grado due imputati vengono condannati per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p per aver lasciato per più di tre ore, nella notte di San Silvestro del 2017, due cani di grossa taglia all’interno di un’auto, parcheggiata sulla via pubblica, senza acqua. Condizione che ha arrecato ai due animali grosse sofferenze anche per l’impossibilità degli stessi di muoversi adeguatamente.

Senza la prova della sofferenza dell’animale non c’è reato

I due imputati, in disaccordo con l’esito del giudizio di primo grado, impugnano la sentenza innanzi alla Corte di Cassazione sollevando un unico motivo, con il quale fanno presente che l’art. 727 c.p punisce chi detiene gli animali in condizioni incompatibili con la loro natura quando la detenzione produce gravi sofferenze.

In relazione al reato contestato i due imputanti evidenziano che la motivazione della sentenza di condanna difetta nel punto in cui dovrebbe dimostrare il nesso di causa tra la condotta e le gravi sofferenze che i due animali avrebbero subito. Non basta la mera condizione di detenzione per dedurre che i due animali abbiano patito a causa della assenza di acqua, dello spazio ridotto in cui muoversi e delle carenti protezioni dal freddo. Nessuna prova inoltre è stata fornita della sofferenza degli animali. Per gli imputati l’auto non è un luogo insalubre in cui detenere due cani, anche perché capace di proteggere dalle intemperie.

Detenzione incompatibile con la natura dell’animale

La Cassazione adita, non condividendo la tesi difensiva dei due imputati, respinge i ricorsi perché non li ritiene meritevoli di accoglimento.

Per la Corte, l’abitacolo di un’autovettura, anche a volerlo ritenere confortevole, è comunque sempre diverso dall’habitat naturale in cui dovrebbero essere detenuti i due animali, senza contare il tempo di stazionamento dentro l’auto e il contesto generale.

Anche a prescindere dalle sofferenze fisiche, non si può certo trascurare l’esperienza vissuta dai due animali in rapporto alla loro sensibilità, aspetto che la norma vuole tutelare, preservandoli da condizioni di detenzione o custodia in grado di cagionare una sofferenza superiore alla soglia di tollerabilità.

Occorre inoltre sottolineare che la norma, che contempla un reato contravvenzionale, non richiede ai fini della punibilità, la volontà da parte dell’agente di recare sofferenza all’animale, bastando la colpa.

Il giudice di merito, per gli Ermellini, ha ben valutato gli elementi probatori a sua disposizione deducendo che, a causa dello spazio ridotto, dell’assenza di ciotole per l’acqua e del freddo, i due animali abbiano patito gravi sofferenze. Sofferenze per le quali non occorre prova, potendo desumersi dal contesto, come ha correttamente concluso il giudice di merito, che ha rilevato la mancata adozione delle accortezze necessarie a soddisfare i compiti di cura degli animali al fine di garantire il loro benessere.

E’ in pratica dalla incompatibilità delle condizioni di detenzione con la natura dell’animale che deve desumersi la sua sofferenza e poiché tale elemento deve desumersi dalle condotte che incidono sulla sua sensibilità, è stato sufficiente appurare la condizione di nervosismo dei due cani accertate dai verbalizzanti, per giungere alle conclusioni a cui è arrivato il giudice di merito.

Fonte Studio Cataldi

16 Ott

Alcoltest: imputato assolto in caso di dubbi sullo stato d’ebbrezza

di Lucia Izzo

Per il Tribunale di Genova diversi elementi fanno dubitare sullo stato d’ebbrezza dell’imputato, tra cui l’accertamento etilometrico effettuato oltre un’ora dopo l’incidente

Assunzione di farmaci che possono influire sul tasso alcolemico, accertamento etilometrico effettuato oltre un’ora dall’incidente, nonché i risultati identici dei due alcoltest effettuati a distanza di pochi minuti: tutti questi elementi inducono a ritenere sussistenti dubbi concreti sullo stato di ebbrezza dell’imputato. Senza contare l’assenza di omologazione dell’apparecchio utilizzato e le verifiche periodiche non effettate o effettuate in ritardo sullo stesso.

Sono questi gli elementi che hanno indotto il Tribunale di Genova, nella sentenza n. 3744/2021 (qui sotto allegata), a pronunciare l’assoluzione per insussistenza nel fatto nei confronti di un uomo imputato per guida in stato di ebbrezza, accogliendo cosi la richiesta formulata dal Pubblico Ministero.

In dettaglio, al prevenuto, difeso dagli Avv.ti M.Maurizio e M.Guido del Foro di Genova, si contesta la violazione dell’art. 186, comma 2, lett. b) e commi 2-bis e 2-sexies del Codice della Strada.

L’uomo era stato sottoposto a controllo dopo che la polizia era intervenuta, di notte, sul luogo del sinistro stradale che lo aveva visto coinvolto in qualità di conducente di una vettura, non di sua proprietà, della quale aveva perso il controllo andando poi a urtare ripetutamente il guard-rail e poi un palo della luce. L’alcoltest aveva rilevato un tasso alcolemico 1,08 g/l alle 4:10 e di 1.08 g/l alle 4:17.

Interferenze sulla prova spirometrica

A seguito dell’audizione di testi e consulenti, nonché acquisiti i necessari documenti, in giudizio emerge come il conducente assumesse un farmaco che poteva avere ripercussioni sull’assunzione di alcol: come sottolinea la difesa, il medicinale avrebbe potuto provocare un aumento del livello ematico nel sangue e dunque interferire sulla prova spirometrica con possibile errore del dato rilevato dallo strumento.

Un assunto la cui riprova è rinvenibile nel fatto che i due test hanno fornito risultati identici, circostanza che non apparirebbe compatibile, né scientificamente né tecnicamente, e neppure confacente con la cinetica di assorbimento dell’alcol nel sangue.

Tra l’altro, la difesa sottolinea come l’accertamento etilometrico, intervenuto dopo 69 minuti dall’incidente, non avrebbe avuto valore legale secondo il D.M. 196/90. Nel verbale, infatti, neppure sarebbe presente alcun elemento sintomatico dell’ebbrezza dell’uomo, che viene descritto come “presente” e con solo po’ di alito vinoso. Solo un prelievo ematico, in sostanza, avrebbe permesso di accertare con sicurezza il tasso di alcol nel sangue.
Ritardo nel rilevamento

In effetti, conferma il Tribunale “questo distacco di rilevamento temporale non appare di per sé definitivamente rassicurante sulla qualità dell’accertamento, in quanto tardivo”, premessa a cui seguono ulteriori considerazioni idonee a incidere sulla qualità tranquillizzante della prova concreta.

In primis, si menziona l’indicato possibile o probabile effetto di interferenza sull’accertamento etilometrico del farmaco che provatamente l’uomo assumeva per inalazione. In secondo luogo, l’assenza di decisivi elementi sintomatici di ebbrezza ulteriore.

Il terzo elemento su cui si sofferma il magistrato è un “dato oggettivo e tecnico” idoneo a porre ulteriori e rilevanti dubbi anche sulla corretta taratura dell’apparecchio in quella circostanza e che deve essere valutato secondo la Curva di Widmark: come noto, questa indica la concentrazione di alcol, in andamento crescente tra i 20 ed i 60 minuti dall’assunzione, la quale assume un andamento decrescente dopo aver raggiunto il picco massimo di assorbimento in detto intervallo di tempo”.
Variazione dei valori accertati

È dato giurisprudenziale, si legge in sentenza, “che i valori possano variare da soggetto a soggetto, dipendendo da numerosi fattori che sfuggono alla possibilità di astratta previsione” e, tra l’altro, nel caso concreto, “i risultati degli alcoltest (tra l’altro eseguiti a più di un’ora dal fatto) esattamente identici, eseguiti alla rilevante distanza di tempo dal fatto sopra indicata, appaiono in contrasto con la previsione della regola generale della Curva”.

Di regola, spiega il magistrato, i valori accertati sono tra loro diversi proprio in virtù del duplice accertamento, che non può essere a distanza inferiore ai 5 minuti, che si inserisce nella fase crescente o in quella decrescente della curva.

I risultati identici dei due scontrini, dunque, sarebbero sintomatici del cattivo funzionamento della macchina. Tra l’altro, come evidenziato dal consulente della difesa, dalla lettura del libretto metrologico dell’apparecchio si evince, non solo, la mancanza dell’omologazione dello strumento, ma anche che le verifiche periodiche erano state effettuate in ritardo o non correttamente mantenute.

In conclusione, residuano dubbi circa l’accertamento concreto dell’ebbrezza dell’imputato mentre guidava al momento del sinistro per cui è processo e, in virtù di tutto quanto esposto, il Tribunale ritiene mancante una prova certa in ordine alla stessa sussistenza del fatto di reato contestato all’imputato. Da qui la piena assoluzione dello stesso.

Studio Cataldi