Autore: Redazione web

11 Ago

Danni causati da animali selvatici

di A. Villafrate

La fauna selvatica, disciplinata dalla legge n. 157/1992, in caso di danni a terzi vede come legittimata passiva della richiesta risarcitoria la Regione. La norma applicabile è l’art. 2052 c.c. come ribadito dalla Cassazione

Gli animali selvatici sono oggetto di diversi provvedimenti normativi. La prima legge di riferimento è la n. 157/1992 che contiene le “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio.”
All’art. 1 si precisa che la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato e che compiti particolari, in relazione a diverse specie di animali, sono affidate alle Regioni e alle Province. Per l’argomento però che qui interessa trattare la norma di riferimento più importante è senza dubbio l’articolo 2052 del codice civile il quale così dispone: “Il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo hai in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito.”
La conferma di quanto detto proviene dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che con una recente ordinanza ha riepilogato i principi giuridici guida da seguire nelle cause risarcitorie intraprese per danni causati da animali selvatici. Vediamo di cosa si tratta.

Danni provocati da animali selvatici: art. 2052 c.c.

Un uomo conviene in giudizio la Regione Molise e la Provincia di Isernia per ottenere il risarcimento dei danni portati dal suo veicolo dopo l’impatto con un grosso cinghiale. Sia la Regione che la Provincia però eccepiscono la propria legittimazione passiva nel giudizio ai sensi degli articoli 2043 e 2052 c.c. La Cassazione nell’ordinanza n. 18454/2022 dichiara che per risolvere il caso di specie deve darsi seguito all’indirizzo di legittimità con cui questa Sezione della Corte ha affermato i seguenti principi di diritto:
Applicabilità dell’art. 2052 cc.
“I danni cagionati dalla fauna selvatica sono risarcibili dalla P.A. a norma dell’art. 2052 c. c., giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull’utilizzazione dell’animale e, dall’altro, le specie selvatiche protette ai sensi della L. n. 157 del 1992 rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell’ambiente e dell’ecosistema.

Legittimata passiva è la Regione

Nell’azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell’art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti; la Regione può rivalersi (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell’esercizio di funzioni proprie o delegate, l’adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno.

Al danneggiato l’onere del nesso tra evento e condotta dell’animale

In materia di danni da fauna selvatica a norma dell’art. 2052 c.c., grava sul danneggiato l’onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, mentre spetta alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell’animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure – concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente e dell’ecosistema – di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi.
Invocabile l’art. 2052 c.c.
Con detto indirizzo giurisprudenziale che oramai può considerarsi consolidato – Cass. 05/11/2021, n. 32018; Cass. 9/02/2021, n. 3023; Cass. 20/04/2020, n. 7969; Cass. 29/04/2020, nn. 8384 e 8385; Cass. 6/07/2020, n. 13848; Cass. 2/10/2020, n. 20997; Cass. 31/08/2020, n. 18085; Cass. 31/08/2020, n. 18087; Cass. 15/09/2020, n. 19101; Cass. 1.2/11/2020, n. 25466 – è stato superato il precedente quadro interpretativo che riteneva impossibile invocare per la fauna selvatica il regime previsto dall’art. 2052 c.c., attesa l’inestensibilità del dovere di custodia ivi previsto agli animali selvatici che vivono in libertà.

La Regione per liberarsi deve provare il caso fortuito

Questa Corte, invece, oggi ritiene che la proprietà pubblica delle specie protette disposta in funzione della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, che avviene anche attraverso la tutela e la gestione di dette specie, mediante l’attribuzione alle Regioni di specifiche competenze normative e amministrative, nonché di indirizzo, coordinamento e controllo (non escluso il potere di sostituzione) sugli enti minori titolari di più circoscritte funzioni amministrative, proprie o delegate, determina una situazione equiparabile (nell’ambito del diritto pubblico) a quella della “utilizzazione”, al fine di trarne una utilità collettiva pubblica per l’ambiente e l’ecosistema, degli animali da parte di un soggetto diverso dal loro proprietario.

Di conseguenza, è la Regione a dover essere considerata, ex art. 2052 cod.civ., l’esclusiva responsabile dei danni causati dagli animali – perché se ne serve nel senso dianzi precisato – salvo che provi il caso fortuito. Ciò comporta, evidentemente, che sull’attore che allega di avere subito un danno, cagionato da un animale selvatico appartenente ad una specie protetta rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato, graverà l’onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla legge n. 157 del 1992 e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.

Al conducente dimostrare di aver fatto il possibile per evitare il danno

Ove si controverta di danni derivanti da incidenti stradali tra veicoli ed animali selvatici non basta – ai fini dell’applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. – la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l’impatto tra l’animale ed il veicolo, in quanto, poiché al danneggiato spetta di provare che la condotta dell’animale sia stata la “causa” del danno e poiché, ai sensi dell’art. 2054, comma 1, c.c., in caso di incidenti stradali, il conducente del veicolo è comunque onerato della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, quest’ultimo – per ottenere l’integrale risarcimento del danno che afferma di aver subito – dovrà anche allegare e dimostrare l’esatta dinamica del sinistro , dalla quale emerga che egli aveva nella specie adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida, da valutare con particolare rigore in caso di circolazione in aree in cui fosse segnalata o comunque nota la possibile presenza di animali selvatici, e che la condotta dell’animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui – nonostante ogni cautela – non sarebbe stato possibile evitare l’impatto, di modo che essa possa effettivamente ritenersi causa esclusiva (o quanto meno concorrente) del danno.”

Il precedente sulla responsabilità della Regione

L’appena citato mutamento giurisprudenziale sulla responsabilità della Regione in materia di danni cagionati dalla fauna selvatica, come ricorda la Cassazione n. 22271/2021 è la Cassazione n. 7969/2020 “che ha espressamente riconosciuto la legittimazione passiva in via esclusiva alla regione in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti” (nei cui confronti, peraltro, la regione può rivalersi, anche chiamandoli in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) -, sulla cui scorta si sono espresse, tra le pronunce massimate, Cass. sez. 3, 22 giugno 2020 n. 12113 e Cass. sez. 3, ord. 6 luglio 2020 n. 13848; l’orientamento è stato ribadito da tutti i successivi arresti non massimati (Cass. sez. 6-3,ord. 31 agosto 2020 nn. 18085 e 18087; Cass. sez. 6-3, ord. 15 settembre 2020 n. 19101; Cass. sez. 6-3,ord. 2 ottobre 2020 n. 20997; Cass. sez. 3, ord.11 novembre 2020 n. 25280; Cass. sez. 6-3, ord. 9 febbraio 2021 n. 3023).”

11 Ago

Diritto all’avvocato per i militari

di Francesco Paolo Matrovito

E’ legittimo per il personale militare e gli appartenenti al comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso il diritto di potersi far rappresentare da un avvocato in ambito extragiudiziale

Diritto alla difesa
Il diritto alla difesa è inviolabile ed universale (art. 24 Cost.) perchè costituisce il fulcro di ogni sistema democratico e anche la nostra Costituzione sancisce come fondamentale il principio “cuique defensio tribuenda” tanto da non poter essere limitato o modificato ex lege, nemmeno mediante procedimenti di revisione costituzionale.

E’ saldo il diritto di ognuno di ricevere assistenza legale da parte di un soggetto esercente tale professione, nonchè la possibilità di poter partecipare effettivamente ed attivamente non solo al processo, ma anche prima in tutte le varie attività prodromiche, ovvero stragiudiziali.

Diritto difesa anche in ambito militare: le fattispecie
I due casi hanno visto coinvolti due militari interessati da una sanzione disciplinare irrogata causata dall’aver affidato ad un legale la gestione di una sua posizione giuridica (stragiudiziale) davanti l’amministrazione militare.

Ebbene, contrariamente da quanto motivato dall’amministrazione, il richiamato diritto di difesa, ben si estende anche in ambito stragiudiziale nell’ambito del diritto militare, ovverosia nei riguardi delle Amministrazioni appartenenti al Comparto Difesa, Sicurezza e Soccorso.

I Giudici amministrativi – infatti – nell’annullare l’irrogazione di un provvedimento disciplinare hanno statuito che “in via generale l’assistenza di un legale in sede di interlocuzione con l’Amministrazione di appartenenza costituisca esercizio di una facoltà legittima, espressione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione e non può considerarsi tale da integrare la violazione dei doveri del militare.”

Viene inoltre evidenziato che il diritto di difesa, inteso in senso lato, “deve poter essere esercitabile anche al di fuori e in via preventiva rispetto al momento dell’azione in sede di giudizio – e anzi può essere volto ad evitare che si arrivi a esiti conflittuali in sede giudiziale – e, quindi, può esplicarsi anche nella fase di interlocuzione a forte impronta gerarchica, come quelle militari”.

Non a caso il diritto de quo inteso come esercizio di una facoltà legittima è sempre garantito, anche nelle organizzazioni a forte impronta gerarchica quale quelle militari (cfr. Consiglio di Stato sez. II sent. n. 03361/2022 Reg. Prov. Coll., n. 01328/2018 Reg. Ric. Pubbl. Il 27/04/2022) nè tanto meno “…può risultare recessivo di fronte alle generiche argomentazioni difensive dell’amministrazione che si richiamano alla necessità che lo stesso non costituisca causa di intralcio e appesantimento dell’attività amministrativa e finanche a ragioni di riservatezza, in ragione alla divulgazione di dati inerenti al servizio legale e ai suoi collaboratori” (cfr. Consiglio di Stato sez. II sent. n. 01652/2022 Reg. Prov. Coll., n. 04381/2017 Reg. Ric. Pubbl. Il 7/03/2022).

Le richiamate sentenze ribadiscono, infine, che il diritto alla difesa deve essere garantito in qualsiasi momento, anche nella fase interlocutoria con l’amministrazione ovvero preliminare “…e anzi il dialogo preventivo con l’amministrazione su eventuali possibili controversie risulta conforme ai principi di comportamento in buona fede e leale collaborazione che devono sempre improntare il rapporto tra il cittadino e l’amministrazione pubblica, anche nel caso in cui si tratti di un militare”.

Legittimo intervento avvocato

Alla luce delle posture assunte dall’alto consesso giurisprudenziale amministrativo, non solo è stato chiarito la legittimità di un intervento da parte del legale, ma appare persino utile perché soggetto professionalmente qualificato, essendo tendenzialmente garanzia che il rapporto si mantenga nei perimetri di una corretta tutela dei diritti dell’interessato in aderenza alle modalità consentite dall’ordinamento giuridico.

11 Ago

Abbandono di incapace

di Villafrate A.

L’abbandono di persone minori o incapaci è un delitto previsto e punito dall’art. 591 del codice penale con la reclusione da 6 mesi a 5 anni
Abbandono di incapace: art. 591 c.p.

Ex art. 591 c.p., è punito con la reclusione da 6 mesi a cinque anni chi abbandona:

un minore di anni quattordici,
una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia, o per altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura.
La stessa pena è applicata anche a chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore di anni diciotto, che gli era stato affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro.

Nel caso in cui dall’abbandono derivi una lesione personale, la pena della reclusione è prevista da uno a sei anni, mentre se ne consegue la morte da tre a otto anni.

Le pene sono aumentate se ad abbandonare l’incapace è il genitore, il figlio, il tutore, il coniuge, l’adottante o l’adottato.

Ratio dell’istituto

Il legislatore, con la previsione del reato di abbandono di incapace, si dimostra sensibile nei confronti dei soggetti più fragili, prevedendo pene severe per chi viola gli obblighi di cura e di custodia.

La norma si fonda sulla presunzione di fragilità degli infra quattordicenni, mentre per quanto riguarda gli incapaci richiede l’accertamento delle condizioni di fatto (malattia, età o altra causa) a motivo delle quali sono sottoposti alla cura altrui.

Da segnalare l’elasticità dei concetti di abbandono e di incapacità, così come formulati dalla norma, ha permesso alla giurisprudenza di merito e di legittimità di interpretare ed adeguare la norma ai soggetti e alle situazioni più svariate.

Abbandono di incapace: oggetto della tutela

Oggetto formale della tutela dell’art. 591 c.p. è l’incolumità individuale, anche se nella sostanza pare che il legislatore voglia altresì favorire l’integrità e il benessere psico-fisico dei soggetti deboli.

Il fatto stesso che l’abbandono di incapace sia un reato di pericolo, evidenzia l’intenzione di voler mettere il punto sulla condotta, a prescindere dai suoi effetti.

Questo concetto “aperto” permette alla giurisprudenza di riconoscere rilevanza penale a svariate condotte attive e omissive, da cui possono scaturire anche situazioni di pericolo meramente potenziali.

Abbandono di incapace: i soggetti attivi

Il soggetto attivo del reato è qualunque soggetto gravato

da un obbligo formale nei confronti dell’incapace;
da un obbligo implicito nei confronti dell’infra quattordicenne, ad eccezione del minore di anni diciotto affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro a un soggetto determinato.
Per la forma aggravata del reato di abbandono, la norma prevede pene particolarmente severe se a commetterlo sono soggetti specificamente individuati: il genitore, il figlio, il tutore, il coniuge, l’adottante e l’adottato.

La condotta punita

La condotta di abbandono può realizzarsi con un’azione singola o con più atti successivi. Se il momento dell’abbandono integra il reato, al fine di rispondere all’esigenza di una tutela immediata del soggetto passivo del reato, la condotta protratta nel tempo mira a colpire qualsiasi comportamento distratto e negligente. La condotta però presenta delle sfumature particolari, a seconda che il reato si realizzi ai danni di un minore o di un incapace.

  • Il minore
    Il legislatore, nel riconoscere una fragilità implicita al minore infra quattordicenne, che non richiede accertamenti giudiziali e prescinde dalle sue condizioni psico-fisiche, prevede un dovere di protezione in capo a tutti coloro che entrano in contatto con questo soggetto: genitori, parenti, domestici, datori di lavoro, maestri, insegnati, ma anche vicini di casa e soggetti in grado di rilevare la situazione di “abbandono” del minore.
  • L’incapace
    Per le persone incapaci, invece, affinché si configuri il reato il soggetto attivo deve essere gravato da un formale obbligo di custodia o di cura (che prevede compiti svariati e complessi). Da precisare però che, se il dovere di custodia implica una relazione tra soggetto attivo e passivo del reato che può nascere anche da una sua spontanea assunzione o da una situazione di fatto, il dovere di cura, deve invece scaturire da fonti giuridiche formali.

A precisare questa differenza è intervenuta la Corte di Cassazione penale con sentenza n. 53038/2016: “Questa Corte ha già affermato che in tema di abbandono di persone minori o incapaci (art. 591 cod. pen.), il dovere di custodia implica una relazione tra l’agente e la persona offesa che può sorgere non solo da obblighi giuridici formali, ma anche da una spontanea assunzione da parte del soggetto attivo nonché dall’esistenza di una mera situazione di fatto, tale per cui il soggetto passivo sia entrato nella sfera di disponibilità e di controllo dell’agente, in ciò differenziandosi dal dovere di cura, che ha invece unicamente ad oggetto relazioni scaturenti da valide fonti giuridiche formali (Sez. 5, n. 19448 del 12/01/2016).”

L’elemento psicologico

Il dolo del reato d’abbandono di incapace è generico, nel senso che il soggetto agente deve abbandonare volontariamente l’incapace, con la consapevolezza sia del dovere di cura o di custodia gravante su di lui, sia del pericolo, anche meramente potenziale, che la sua condotta può produrre sulla salute del soggetto passivo.

Ai fini dell’elemento soggettivo del delitto quindi rileva solo la volontà dell’abbandono e la coscienza di abbandonare un soggetto incapace di provvedere alle proprie esigenze.

23 Giu

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La redazione
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29 Apr

Atti contrari alla pubblica decenza

di A. Villafrate

Gli atti contrari alla pubblica decenza, reato disciplinato dall’art. 726 c.p. e depenalizzato dal 2016, sono puniti con una sanzione pecuniaria se commessi in luogo pubblico, aperto o esposto al pubblico

Il reato di atti contrari alla pubblica decenza (turpiloquio) previsto e disciplinato dall’art 726 c.p, è stato depenalizzato per intervento del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8.

Trattasi infatti ad oggi di un illecito amministrativo che viene integrato quando “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza”.

Non è necessario che gli atti siano effettivamente percepiti da terzi, è sufficiente che gli stessi siano anche solo percepibili.

Sanzione art. 726 c.p.

La sanzione amministrativa pecuniaria prevista per questo illecito, da euro 5.000 a euro 10.000, è stata di recente oggetto della pronuncia della Corte Costituzionale n. 95/2022, che ha bocciato l’art. 726 c.p. Troppo elevata e contraria al principio di proporzionalità la sanzione prevista per questo illecito, soprattutto se la si rapporta con la sanzione prevista per il reato ben più grave di atti osceni in luogo pubblico e per condotte che, sebbene più pericolose, sono punite in misura inferiore dal Codice della Strada.

Quali sono gli atti contrari alla pubblica decenza?

Gli atti contrari alla pubblica decenza sono in generale quelli che violano le regole della civile convivenza, previste da una società organizzata. La norma pone un limite alle modalità con cui un soggetto può manifestare il proprio pensiero. Il termine decenza, attorno al quale ruota il significato della norma è rappresentato dal sentimento della morale, della pudicità, della costumatezza. Sono inoltre atti contrari alla pubblica decenza quelli che sono in grado di suscitare sentimenti di ripugnanza.

Esempi di atti contrari alla pubblica decenza

Gli esempi più significativi dell’illecito arrivano dalla giurisprudenza. La Cassazione al riguardo ha qualificato come atti contrari alla pubblica decenza, le seguenti condotte, anche se alcune si riferiscono al periodo in cui tale illecito configurava un reato:

orinare contro il muro di un cimitero (sentenza n. 16477/2019);
orinare all’esterno di un locale adibito a discoteca (sentenza n. 10845/2018);
orinare sul muro di una via cittadina (sentenza n. 30801/2017);
esibire i glutei scoperti in un luogo di pubblico transito (sentenza n. 23083/2011);
stare sdraiato in un’auto completamente nudo a fianco di una donna semisvestita (sentenza n. 23234/2012);
indossare un abbigliamento trasgressivo e spinto se accompagnato da condotte capaci di suscitare disgusto, disagio o riprovazione (sentenza n. 389860/2014).

Atti contrari alla pubblica decenza: competenza

Con la depenalizzazione del reato il compimento di atti contrari alla pubblica decenza, una volta accertato l’illecito amministrativo di specie da parte degli agenti competenti, il trasgressore ha la possibilità di contestare la violazione rivolgendosi direttamente al Prefetto. La contestazione però deve realizzarsi nel termine di 30 giorni dalla violazione o dalla notifica del verbale.

Il soggetto può presentare scritti difensivi e il Prefetto può disporre la comparizione personale del soggetto.

Il Prefetto una volta analizzato il contenuto del verbale, gli scritti difensivi e ascoltato le persone interessate che ne hanno fatto richiesta, può:

disporre l’archiviazione del procedimento avviato a carico del trasgressore;
confermare il verbale emettendo l’ordinanza ingiunzione per il pagamento della multa, che su istanza dell’interessato e previa dimostrazione della propria situazione economica, può essere pagata ratealmente.

Nel termine di 30 giorni dalla notifica del provvedimento il soggetto interessato può ricorrere al Giudice di Pace.

Art. 726 c.p.: oblazione

L’oblazione, ovvero la possibilità di definire il procedimento penale a proprio carico, estinguendo il reato, pagando una somma pari alla metà della pena massima prevista, non è più possibile dopo l’intervenuta depenalizzazione.

Differenza tra atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza

La differenza tra gli atti osceni e quelli contrari alla pubblica decenza è stata ribadita dalla Cassazione nella sentenza n. 43939/2019 “La distinzione tra gli atti osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza va individuata nel fatto che i primi offendono, in modo intenso e grave, il pudore sessuale, suscitando nell’osservatore sensazioni di disgusto oppure rappresentazioni o desideri erotici, mentre i secondi ledono il normale sentimento di costumatezza, generando fastidio e riprovazione.”

Fonte Studio Cataldi

29 Apr

Violenza sessuale di gruppo, la giovane età non è di per sè un’attenuante

di A. Villafrate

Negate dalla Cassazione ai giovani stupratori di gruppo le attenuanti generiche art. 62 bis c.p in ragione della loro età, esse non possono essere riconosciute dal giudice per benevolenza, ma devono essere motivate in modo non generico

Violenza di gruppo e attenuante della giovane età

Accolto il ricorso del Procuratore Generale, che contesta la concessione delle attenuanti in favore dei giovani imputati, responsabili del reato di violenza di gruppo. La Cassazione ricorda infatti che la giovane età è un’attenuante solo quando pregiudica la maturità del soggetto e la capacità di valutare la propria condotta in base alle regole del vivere civile. Ipotesi che non ricorre nel caso di specie, in quanto dalle prove sono emerse versioni contraddittorie e imprecise dei fatti e l’accusa comune mossa alla vittima di aver fornito una versione falsa e calunniosa nei loro confronti, quando in realtà, dalle prove, è emerso “un giudizio di certezza in termini incontestabili” sulle responsabilità degli imputati. Questa la decisione contenuta nella Cassazione n. 15659/2022
La vicenda processuale

Sei imputati vengono ritenuti responsabili del reato di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609 ter comma 1 n. 2 c.p in quanto hanno compiuto atti sessuali in danno di una cittadina britannica, dopo averle somministrato sostanze stupefacenti, meglio note come droga dello stupro.

La Corte di Appello riduce la pena della reclusione in favore dei diversi imputati, riconoscendo agli stessi le attenuanti generiche.

I giovani imputati non meritano le attenuanti generiche

Tutti gli imputati, assistiti dai rispettivi difensori ricorrono in Cassazione, con ricorsi distinti, ma ciò che preme evidenziare è il ricorso del Procuratore Generale, che deduce in detta sede la violazione dell’art. 62 bis c.p che contempla le attenuanti generiche.

Il Procuratore contesta in particolare alla Corte di non aver preso in considerazione in misura adeguata la allarmante personalità, esclusa solo a causa della giovane età e dall’assenza di precedenti penali. In realtà, sottolinea il Procuratore, la versione dei fatti data dagli imputati non solo è diversa da quella fornita dalla persona offesa, ma questa, a loro dire, è calunniosa e falsa perché frutto di premeditazione, nonostante le divergenti narrazioni dei vari imputati. Nel concedere le attenuanti generiche la motivazione, sostiene il Procuratore, deve indicare elementi positivi in grado di giustificarne la concessione, ipotesi però che nel caso di specie, non è rilevabile. Poiché le attenuanti generiche non possono essere frutto di una benevola concessione da parte del giudice il Procuratore chiede l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla concessione delle attenuanti generiche.

Giovane età: attenuante se incide sulla capacità di valutazione

La Cassazione prima di tutto, in un punto della motivazione, chiarisce che il contenuto della sentenza della Corte di Appello sulla responsabilità degli imputati è frutto di una valutazione assai approfondita di tutti gli elementi probatori acquisiti, che hanno permesso di giungere a un giudizio di certezza incontestabile

Fondato inoltre il ricorso avanzato dal Procuratore, che la Corte accoglie. Vero in effetti che la Corte di Appello ha riconosciuto agli imputati le attenuanti generiche in conseguenza della valorizzazione della ammissione dell’addebito. Il tutto, in piena contraddizione con le divergenze significative delle plurime versioni degli imputati, imprecisioni e contraddizioni che la stessa Corte di Appello ha ritenuto che aprissero la porta al sospetto di una “ricostruzione della vicenda non genuina.”

Del tutto generico inoltre, per gli Ermellini, il riferimento all’elemento della giovane età. Al riguardo la Cassazione ricorda infatti che l’età può essere un’attenuante solo quando svolge “un’effettiva incidenza ed abbia uno specifico rilievo nella condotta criminosa ed è, quindi, necessario che il giudice accerti che la condizione giovanile abbia influito sulla personalità del soggetto, determinandone una non completa maturità e capacità di valutare il proprio comportamento secondo le norme del buon vivere civile.”

Fonte Studio Cataldi

29 Apr

Autovelox: Il verbale non fa piena prova del corretto funzionamento

di Marco Sicolo

Giudice di pace di Frosinone: per dimostrare in giudizio il corretto funzionamento dell’autovelox non è sufficiente il verbale, ma occorre la dimostrazione della taratura dell’apparecchio

Autovelox, serve dimostrazione della taratura

Per dimostrare il corretto funzionamento di un autovelox non è sufficiente produrre in giudizio il verbale sottoscritto dagli agenti accertatori, ma occorre, ove contestata, la prova dell’avvenuta taratura dell’apparecchio.

Con tale motivazione, una sentenza del Giudice di Pace di Frosinone (n. 311/2022 sotto allegata) ha accolto il ricorso di un automobilista, assistito in giudizio dall’avv. Roberto Iacovacci, nei cui confronti era stata elevata una contestazione per violazione dei limiti di velocità, rilevata con autovelox.

Taratura autovelox, non basta il verbale

Il verbale di accertamento con cui un ente pubblico contesta al conducente la violazione delle norme del codice della strada ha un valore probatorio sicuramente notevole, ma non per questo insuperabile in giudizio.

Alcune circostanze in esso riportate, infatti, necessitano di una più specifica dimostrazione, allorquando siano oggetto di contestazione da parte del soggetto che ha impugnato l’atto.

È proprio questo il caso di cui trattiamo, poiché il ricorrente aveva contestato la mancata effettuazione delle prescritte operazioni di taratura periodica, cui deve essere sottoposta ogni apparecchiatura destinata al rilevamento automatico delle infrazioni al C.d.S. (in questo caso, il superamento dei limiti di velocità).

Gdp Frosinone: verbale non dimostra taratura autovelox

Costituitosi in giudizio, l’ente accertatore si è limitato a fare riferimento al verbale elevato dagli agenti, richiedendo che allo stesso venisse riconosciuto il valore di piena prova fino a querela di falso, con riguardo a tutte le circostanze in esso descritte.

Sul punto, il giudicante ha ricordato che “non è sufficiente che il verbale riporti che la violazione era stata rilevata a mezzo apparecchiatura autovelox debitamente omologata e revisionata, della quale gli agenti avevano accertato preventivamente e costantemente la corretta funzionalità. Difatti, nel giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione (…) il verbale di accertamento dell’infrazione fa piena prova fino a querela di falso solo e limitatamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale” (Cass. 6565/07).

Il verbale, invece, “non riveste fede privilegiata – e quindi non può fare fede fino a querela di falso – in ordine all’attestazione, frutto di mera percezione sensoriale, degli agenti circa il corretto funzionamento dell’apparecchiatura autovelox, allorché e nell’istante in cui ebbe a rilevare il contestato eccesso di velocità” (Cass. 32369/18).

Per tali motivi, il ricorso veniva accolto e il verbale annullato.

5 Mar

Il reato di cyberstalking

di E. Fierimonte

Il cyberstalking, prende le mosse dal delitto di atti persecutori, previsto e punito dall’art. 612-bis c.p., integrato dall’uso di internet o di altri strumenti elettronici

Cos’è il cyberstalking: definizione

L’avvento delle tecnologie in continuo sviluppo ha tristemente portato ad una registrazione delle condotte criminose integrate attraverso l’uso di strumenti informatici e telematici. La vulnerabilità della vittima richiede senza dubbio una conoscenza, da parte della medesima, degli strumenti per potersi difendere contro chi commette questo reato.
Ma vediamo prima cosa si intende per Cyberstalking.
Trattasi del reato commesso da chi, facendo utilizzo di internet o altri strumenti informatici, molesta o minaccia qualcuno, creando nella vittima un perdurante e grave stato di ansia o timore per sé (o per altre persone a lui vicine), costringendolo a modificare le proprie abitudini di vita.
Trattasi, dunque, di una tipologia di “atti persecutori” punito dall’art. 612 bis c.p., ma con la particolarità di essere integrato attraverso l’uso di mezzi informatici.Ma vediamo nel dettaglio in cosa consiste.

La condotta e gli strumenti del Cyberstalker

I comportamenti del cyberstalker nei confronti della vittima vanno dai pedinamenti alle molestie, dalle minacce alle altre azioni finalizzate ad ottenere ottenere un controllo o influenza sulla vittima, un tracciamento ossessivo della sua attività online o un monitoraggio di dati personali e privati e il relativo uso criminale.
Il Cyberstalking spesso viene integrato con Whatsapp, Facebook, e-mail, Telegram, Social Network, SMS, ecc.
Spesso vengono utilizzati degli strumenti sofisticati (come gli “stalkerware”), ovvero software utilizzati per spiare qualcuno attraverso il suo dispositivo, senza il consenso della vittima, accedendo da remoto allo smartphone, controllandone email, messaggi, foto, cronologia del browser, attività sui social, gli spostamenti (tracciati dal GPS).

Qual è lo scopo dell’autore del Cyberstalker

Sicuramente esercitare una forma di pressione e controllo sulla vita vittima, con la finalità, come detto poc’anzi, di utilizzare i dati e le informazioni raccolte proprio contro la vittima, costringendola a vivere in uno stato di ansia perdurante, tale da costringerla, altresì, a modificare le proprie abitudini e condizioni di vita.

Quali sono le vittime più colpite da questo reato?

A seguito di una indagine condotta dal Pew Research Center, è emerso come siano le donne giovani le persone più colpite di frequente da questo tipo di reato, rispetto agli uomini.
Tuttavia, in molti casi trattasi di condotte poste in essere da una persona con la quale la vittima ha avuto una relazione sentimentale, o, in altri casi, il cyberstalker ha sviluppato nei confronti della vittima una vera e propria ossessione, ossessione che può nascere da un contatto diretto con la vittima o dalla semplice visione di foto o altri contenuti che riguardino la medesima.

Quali pene sono previste per chi commette questo tipo di reato?

Nel caso di cyberstalking, con riferimento alla pena prevista per la punizione di tale condotta, trova applicazione l’art. 612 bis c.p. (“atti persecutori”), nel comma in cui prevede un aumento della pena se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
Ma quali sono gli strumenti con i quali la vittima di questo reato può difendersi?

Gli strumenti per la difesa della vittima

Innanzitutto la vittima potrà rivolgersi ai Carabinieri o alla Polizia di Stato e presentare una denuncia orale. Le verrà rilasciato un verbale di ricezione firmato dagli operanti e dalla vittima stessa.
Qualora la persona offesa intenda attivarsi al fine di richiedere la punizione dell’autore del reato, potrà depositare presso la Procura della Repubblica una denuncia querela.

Va ricordato che l’art. 612 bis prevede come termine per la presentazione della querela sei mesi. Tale scelta del legislatore è dettata dalla volontà di rafforzare la tutela della vittima, dandole più tempo per attivarsi e difendersi.
Si procede d’ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di un minore, una persona con disabilità o connesso con un delitto per il quale si deve procedere d’ufficio. In un successivo giudizio e nella fase prevista, la vittima potrà depositare un atto di costituzione di parte civile e chiedere, così, un risarcimento dei danni subiti dalla condotta del suo autore.

Fonte Studio Cataldi

5 Mar

Il condomino può installare le telecamere senza autorizzazione dell’assemblea

G. Aprea

La Corte d’appello di Catania legittima l’installazione della telecamera per le esigenze di custodia dell’esercizio commerciale senza l’autorizzazione dell’assemblea condominiale

Telecamere in condominio

Ok alla telecamera per esigenze di custodia dell’esercizio commerciale anche senza l’autorizzazione dell’assemblea condominiale. è quanto ha deciso la Corte di appello di Catania con la sentenza n. 317/2022.
La vicenda

Il Tribunale di Catania, rigettava la domanda proposta da alcuni condòmini. L’oggetto, il diritto di apporre telecamere a custodia e vigilanza dei beni e dell’accesso alle proprie botteghe, senza autorizzazione del condominio. Avverso detta sentenza viene proposto appello.

Gli appellanti deducono l’erroneità della sentenza impugnata per violazione del “Codice in materia di protezione dei dati personali e dell’art. 1122 ter del codice civile.
Art. 1122 ter c.c.

La Corte ritiene che nel caso di specie non possa trovare applicazione l’articolo 1122 ter c.c. in quanto non si tratta di un impianto di videosorveglianza condominiale posto a salvaguardia di parti comuni. Esso è di proprietà
esclusiva ed è posto a tutela di beni di proprietà del singolo condomino. Pertanto, l’istallazione delle telecamere non costituisce violazione di un diritto fondamentale dei condòmini.

La conformazione dei luoghi pone chiaramente in evidenza che le botteghe, dove sono state istallate le due telecamere, si trovano, tutte, su un lato dell’edificio.

Sono dotate pure di un ingresso autonomo, distinto dagli altri due, uno pedonale e l’altro carrabile, serventi tutte le unità immobiliari.

Tutte le botteghe insistono su un lato del perimetro condominiale. Sono in posizione decentrata e distinta rispetto agli ingressi delle altre unità condominiali, in zona poco frequentata, delimitata da una recinzione in ferro.

Lo spazio immediatamente fronti stante, seppure di proprietà condominiale, per la sua consistenza non è destinato a parcheggio dei condomini, ma costituisce un’area libera, che primariamente, serve da accesso alle botteghe.

Tale circostanza rafforza, ed è compatibile, con l’istallazione delle due telecamere.

Inoltre, la Corte osserva che la giurisprudenza ha avuto modo di stabilire che è escluso che vi sia violazione del diritto alla privacy nel caso in cui un soggetto effettui riprese dell’area condominiale destinata a pianerottoli ovvero a scale condominiali, ovvero ancora a parcheggio e del relativo ingresso, trattandosi di luoghi destinati all’uso di un numero indeterminato di persone.

Installazione telecamera di videosorveglianza: lecita se proporzionata alle esigenze di tutela

L’installazione di telecamera di videosorveglianza è lecita laddove risulti proporzionata a quanto necessario per la tutela dell’incolumità fisica personale e famigliare, purché non violi, nell’ambito del necessario bilanciamento da operare tra diritti aventi entrambi tutela costituzionale, il diritto alla riservatezza di soggetti terzi.

Nel caso di specie, la telecamera è puntata sul vialetto, facente parte di un’area comune, che consente di accedere alle abitazioni, rispettivamente, di proprietà dei ricorrenti e del resistente, ma non è in alcun modo provato che tramite la stessa si possa riuscire a vedere anche solo in parte all’interno della villetta dei ricorrenti. Dunque non risulta violato il diritto alla riservatezza degli stessi e deve essere rigettata la domanda per ottenere la disinstallazione di detta telecamera.

Quanto sostenuto dal Condominio, a mente del quale le telecamere dovrebbero essere rimosse anche perché istallate sulla facciata, cioè su una parte comune dell’edificio, non è fondato, in quanto sul punto soccorre l’articolo 1102 c.c.

Nel caso che ci occupa, invero, l’utilizzazione del bene comune fatta dagli appellanti, non altera affatto la destinazione del bene né compromette il diritto al pari uso da parte dei comproprietari, né della facciata né dell’andito condominiale frontistante le botteghe, e rispetta la proprietà esclusiva.

La Corte di appello di Catania con sentenza n. 317 del 15/02/2022 dichiara il diritto di installare e mantenere le telecamere poste a vigilanza delle botteghe senza autorizzazione del condominio.

5 Mar

Autovelox, i requisiti affinchè siano funzionanti correttamente

di G. Lax

L’esperto Giorgio Marcon: «Le regole sono chiare. Il problema è che le stesse vengono interpretate da chi ha interessi economici a proprio favore, al fine di far cassa»
autovelox multe

Autovelox, obiettivo sicurezza

Giorgio Marcon è consulente tecnico investigativo che da anni studia gli autovelox, il loro funzionamento e le giuste modalità di utilizzo di questo strumento. L’esperto, il 23 gennaio scorso, ha portato i suoi studi alla Rai, ospite alla trasmissione Mi manda Rai tre di Federico Ruffo, insieme all’avvocato Fabio Capraro esperto per quanto riguarda il tema delle omologazioni. Quello degli autovelox è un tema delicato di cui più volte ci siamo occupati e sul quale serve fare ulteriore chiarezza. Le regole sul corretto utilizzo ci sono dal 2010: l’obiettivo è la sicurezza e non il guadagno da parte dei comuni.

Cosa è richiesto affinché un autovelox sia correttamente funzionante?

Per determinare la corretta funzionalità di un autovelox, è necessario effettuare una disamina della normativa principale che regola gli strumenti di misura, come l’autovelox.

Un autovelox è uno strumento di misura e, come tutti gli strumenti di misura, deve rispondere a quanto prescritto dalla legge: il Regio Decreto del 23 agosto 1890, n. 7088 (in Gazz. Uff., 15 settembre, n. 216), la legge 273/1991 (che ha istituito il Sistema Nazionale di Taratura ed introdotto nell’ordinamento un corpus di norme di natura prettamente tecnica), il Decreto legislativo
19 maggio 2016, n. 84, la Direttiva 2014/32/UE, concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alla messa a disposizione sul mercato di strumenti di misura, così come modificata dalla direttiva (UE) 2015/13.

Il Ministero competente per gli strumenti di misura, come l’autovelox, è il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico).

Il Codice della Strada (Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n.285) e il suo Regolamento Attuativo determinano i requisiti che devono avere gli strumenti di misura come l’autovelox e sono disciplinati, in primis, dall’art. 45 C.d.S., il quale rimanda, a sua volta, all’art. 192 Reg. C.d.S. che si occupa dell’iter procedurale che dovrebbe avvenire in base a quanto specificato nel Decreto Attuativo, che ad oggi, tuttavia, non risulta emanato.

L’art. 345 Reg. C.d.S. determina solamente le modalità di approvazione, che consiste in un mero atto amministrativo, ma non va a sostituire l’omologazione che è l’iter tecnico che viene svolto dopo aver ottenuto l’approvazione.

L’art. 142 comma 6 del C.d.S. così determina: “…le risultanze di apparecchiature debitamente omologate”.

Fa, dunque, un netto distinguo. Non dice “da apparecchiature debitamente omologate o approvate”! E nemmeno dice “omologato il solo prototipo”!

È ben chiaro il concetto legislativo: “… le risultanze di apparecchiature debitamente omologate”!

Quindi le apparecchiature devono essere omologate…

Pertanto, tutte le apparecchiature devono essere omologate e non solo il prototipo.

Il legislatore, conscio della continua variazione componentistica costruttiva, ha voluto dare garanzia al consumatore, affinché si abbiano strumenti verificati fin dall’origine del loro funzionamento e non approvati solamente a livello amministrativo con un semplice atto di approvazione, come di fatto sono quelli attuali in circolazione, che risultano essere privi pure del loro decreto di approvazione ai sensi dell’art. 192 comma 7 Reg. C.d.S.

Uno strumento solamente approvato con atto amministrativo può essere utilizzato solo per fini statistici.

Sostanzialmente, oggi, vengono commercializzati e utilizzati strumenti privi di decreto di omologazione e di approvazione previsto dall’art. 192 comma 7 Reg. C.d.S. Inoltre, manca anche il decreto attuativo, atto a determinare le modalità per effettuare le prove tecniche di verifica delle qualità dichiarate dal costruttore, della durata del decreto, delle manutenzioni, della taratura e successiva calibrazione, delle verifiche della corretta funzionalità durante il suo funzionamento e della corrispondenza alle norme internazionali.

Ad oggi, nessun autovelox ha i requisiti previsti dalla norma.

Per valutare il corretto funzionamento dell’autovelox è necessario metterlo a confronto con un altro strumento di rilevazione, o autovelox o rilevatore di flusso veicolare, come previsto dallo stesso Ministro con il Decreto Ministeriale n. 282 del 13.06.2017, al Capo 3, Capo 4 e Capo 5.

Ad oggi queste verifiche sono disattese, come altresì è disattesa la segnaletica di preavviso sia fissa che mobile. Il disposto dell’art. 142, comma 6 bis C.d.S. prevede, invece, un obbligo di preventiva segnalazione di carattere generale, riferito a tutte le postazioni di controllo sulla rete stradale e a cui le modalità di attuazione, stabilite prima dall’art. 3 D.M. 15 agosto 2007 ed ora dall’art. 7.3 dell’allegato 1 del D.M. 13 giugno 2017, n. 282, non possono derogare, in quanto introdotte con una fonte normativa subordinata rispetto all’obbligo di preventiva segnalazione, sancito da fonte normativa avente rango legislativo.

In base al criterio gerarchico delle fonti di diritto (“Lex superior derogat inferiori”), nessun provvedimento normativo di rango inferiore può derogare ad una fonte normativa di rango superiore e/o fornire un’interpretazione difforme rispetto a quanto previsto da fonti normative di rango superiore. In caso di contrasto fra statuizioni di legge e decreto ministeriale, prevale sempre la norma di rango superiore, dovendo il Giudice ordinario disapplicare la fonte secondaria. (Cassazione II Civile nr. 2959/21 -Cassazione 15 novembre 2016 nr. 23245 -Cass. civ. Sez. II, 10.5.2006, nr. 10715 -nr. 1672 del 28 giugno 1966 -nr. 3699 del 12 novembre 1958 -Cass. nr. 1836/1975).

Per cui la fallacità costruttiva ne altererebbe i risultati?

Nel corso degli anni, abbiamo avuto modo di dimostrare a livello giudiziale la fallacità costruttiva di questi strumenti, in quanto privi dei requisiti previsti dalla norma, soggetti a continua alterazione dei risultati a causa della rifrazione del sole, a causa della pioggia, della polvere, dell’umidità, della temperatura.

Per gli autovelox che utilizzano le sonde interrate, poi, le problematiche sono ulteriori. Detti dispositivi, operando attraverso il campo magnetico con il passaggio di un veicolo, fanno sì che l’attivazione vari in base alla tipologia di veicolo, al suo peso, alla forma, al cambiamento climatico, alle interferenze elettromagnetiche, agli stessi strumenti elettronici installati sui veicoli nonché a molti altri fattori. Ne deriva che questi sistemi possono essere utilizzati solamente come rilevamento di flusso per il quale non vi è necessità di precisione.

Dagli studi scientifici effettuati in America dalla società “NU-Metrics” emerge quanto segue: poiché le onde elettromagnetiche risultano essere mutevoli sia in frequenza sia in ampiezza in base alla tipologia dei flussi dei veicoli, questi strumenti non possono essere utilizzati per determinare una misura corretta, ma solamente per rilevare i flussi veicolari.

Lo stesso può dirsi per quanto riguarda le rilevazioni tramite il sistema GPS in quanto erra di metri sulla misura, non è puntiforme per ragioni di sicurezza militare ed opera con ritardo sul rilievo.

Alla luce di ciò, si può affermare che nessun sistema, attuato finora, può determinare una corretta rilevazione della velocità, essendo una misura al contrario e derivata.

Interessante è l’esperimento che ho effettuato per la trasmissione “Mi Manda Rai Tre” il giorno 23 gennaio 2022 (vedi Il far west degli autovelox) mediante il quale ho potuto dimostrare uno dei punti oscuri che influenza la misura, rendendone fallace il risultato e che fa sì che venga emessa una sanzione basata su dati non effettivi.

Gli strumenti in circolazione presentano questi requisiti?

«No, purtroppo! Sul punto, gli Ermellini sono intervenuti in più occasioni. Tra tutte, si veda, ad esempio, la sentenza n° 22158 emessa in data 23.05.2013, la quale ha delineato il reato di truffa a danno degli automobilisti».

Fonte Studio Cataldi