Autore: Redazione web

21 Feb

Hacker: ultime dalla Cassazione

di G. Lax

Ultime dalla Cassazione sui crimini informatici perpetrati attraverso l’ausilio di nuove tecnologie, tramite hacking o social engineering

Lo sviamento di potere

Nell’introduzione abusiva in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da lontano (attività tipica dell’hacker) sia da vicino (da persona, cioè, che si trova a diretto contatto dell’elaboratore); nel mantenersi nel sistema contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione, nel senso di persistere nella già avvenuta introduzione, inizialmente autorizzata, continuando ad accedere alla conoscenza dei dati nonostante il divieto, anche tacito, del titolare del sistema; nel c.d. “sviamento di potere”, ossia la situazione nella quale l’accesso o il mantenimento nel sistema informatico dell’ufficio a cui è addetto il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, seppur avvenuto a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati, si connoti, tuttavia, dall’abuso delle proprie funzioni da parte dell’agente, rappresenti cioè uno sviamento di potere, un uso del potere in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demanda.

Se la prima di tali condotte deve essere sicuramente ricompresa nella categoria dei cc.dd. reati comuni, in quanto può essere perpetrata da qualsiasi soggetto, la seconda e la terza possono farsi rientrare nella categoria dei reati propri esclusivi, perché configurabili solo se poste in essere da colui che – come nella specie – è formalmente autorizzato all’accesso ad un sistema informatico o telematico.

Cassazione n. 37524 del 28/12/2020

Le misure di sicurezza

A mente, infatti, dell’interpretazione che ne è stata fornita dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 4694 del 27/10/2011 (confermata sul punto da Sez. U, n. 41210 del 18/05/2017, Savarese, Rv. 271061), le condotte punite da tale norma, a dolo generico, consistono nell’introdursi abusivamente, ovvero nel mantenersi, contro la volontà, espressa o tacita, di chi ha il diritto di esclusione, in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza: «da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema, effettuato sia da lontano (attività tipica dell’hacker) sia da vicino (da persona, cioè, che si trova a diretto contatto dell’elaboratore)».

Cassazione n. 2935 del 22/1/2019

L’operatività del principio di specialità

È corretta la decisione della Corte d’appello, che ha ravvisato il concorso di reati in quanto l’imputato si è dapprima procurato i codici delle carte di credito estere attraverso gli hacker russi o rumeni violando il precetto di cui all’art. 615 quater c.p. e poi ha proceduto alla loro indebita utilizzazione violando l’art. 55 D.lgs. 231/2007 dovendosi qui ribadire che l’operatività del principio di specialità presuppone l’unità naturalistica del fatto che sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi: condotta, evento, nesso causale e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (S.U. n. 41588/2017, rv. 270902).

Cassazione n. 56338 del 14/12/2018

L’hacker “clonatore”

Incensurabile, a fronte delle emergenze probatorie considerate – è il giudizio di inverosimiglianza della versione difensiva incentrata sull’intervento di un “hacker” o “clonatore” nel sistema, del tutto inspiegabile per mancanza di qualsiasi traccia e dal punto di vista logico, oltretutto in assenza della individuazione di qualsiasi razionale – ancorché illecito – scopo della pretesa intromissione. A riguardo della quale non illogicamente è stato escluso il rilievo della limitata vicenda delle diciannove marche in relazione alle quali non si era verificato il corrispondente prelevamento di somme, a fronte della solo apoditticamente riconducibilità di tale malfunzionamento all’intervento doloso di terzi esterni al sistema.

Cassazione n. 51782 del 15/11/18

Accesso abusivo a sistema informatico del pubblico dipendente

Integra il reato di accesso abusivo al sistema informatico la condotta del pubblico dipendente, impiegato della Agenzia delle entrate, che effettui interrogazioni sul sistema centrale dell’anagrafe tributaria sulla posizione di contribuenti non rientranti, in ragione del loro domicilio fiscale, nella competenza del proprio ufficio” (Sez. 5, Sentenza n. 22024 del 24/04/2013 Ud. (dep. 22/05/2013) Rv. 255387). In senso parzialmente difforme, questa stessa Sezione della Corte ha, invece, precisato, in subiecta materia, che – ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 615 bis cod. pen., l’accesso abusivo ad un sistema informatico consiste nella obiettiva violazione delle condizioni e dei limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne l’accesso, compiuta nella consapevolezza di porre in essere una volontaria intromissione nel sistema in violazione delle regole imposte dal “dominus loci”, a nulla rilevando gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato tale accesso (Sez. 5, n. 33311 del 13/06/2016 – dep. 29/07/2016, Salvatorelli, Rv. 26740301).

Cassazione n. 14854 del 27/03/2017
Fonte Studio Cataldi

21 Feb

Autovelox: multa annullata se notificata dopo 90 giorni

di G. Lemini

Per il giudice di pace di Acqui Terme il comune deve anche rimborsare le spese legali al ricorrente

Il Giudice di Pace di Acqui Terme, con Sentenza n. 05/2022 depositata il 10.02.2022 , ha accolto il ricorso di un automobilista che chiedeva l’annullamento di un verbale di accertamento di violazione del codice della strada per eccesso di velocità, elevato a proprio carico dalla Polizia Locale, notificatogli oltre i novanta giorni previsti dall’art. 201 C.D.S.

No all’esimente del ritardo congruo

Nello specifico, l’infrazione, accertata con apparecchiatura elettronica in circostanze tali da non consentire la notifica immediata, risultava essere avvenuta il 09.02.2021 mentre l’atto veniva consegnato al servizio postale per la notifica al trasgressore solo in data 21.05.2021.

Non ha trovato accoglimento la tesi dell’Ente resistente che sosteneva vi possa essere un giustificato scostamento tra il momento dell’infrazione e quello della effettiva identificazione del trasgressore (in questo caso avvenuto 14 giorni dopo l’infrazione) dovendo così far decorrere il termine per la notifica da tale data successiva.
Il Giudice, aderendo ad un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di merito e di legittimità (per tutte Cassazione, Sez. VI n. 7066/2018), ha ritenuto che una tale interpretazione della norma aprirebbe una “indebita area, non tanto di discrezionalità della Pubblica Amministrazione, quanto di assoluta arbitrarietà, ed, in ogni caso, manifestamente illegittima per violazione dell’art. 201 CdS, poiché legittimerebbe ogni Comune, a seconda delle dimensioni, della dotazione organica e delle risorse a disposizione, nonchè finanche invocando il proprio dissesto finanziario, ad invocare l’esimente del ritardo congruo, come intercorso tra accertamento dell’infrazione ed accertamento ed identificazione del colpevole”.

Per tale motivo la sanzione veniva annullata e l’Ente veniva anche condannato a rimborsare le spese legali del ricorrente.

Fonte Studio Cataldi

21 Feb

Il cyberbullismo

di A. Villafrate

Il cyberbullismo è una forma di bullismo online, ossia perpetrato attraverso strumenti telematici. In Italia, il fenomeno è disciplinato dalla legge n. 71/2017

In che cosa consiste il cyberbullismo

Il cyberbullismo o bullismo online si realizza tramite l’attacco ripetuto e continuo alla vittima, di contenuto offensivo e denigratorio, attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla rete, come le chat, i social network e le e-mail.

Si tratta di un fenomeno che assume sempre più un carattere allarmante dal punto di vista sociale, tanto da essere indagato e studiato da molteplici discipline, ed anche nella letteratura e nel cinema (tra le numerose opere cinematografiche sul cyberbullismo si segnala Disconnect, film del 2012 e Unfriendend del 2014; per una lista completa vai all’apposita pagina su Wikipedia).

Dal punto di vista giuridico, esattamente come il bullismo, il cyberbullismo ha riflessi penali, civilistici e in materia di privacy.
Cyberbullismo diretto

Il cyberbullismo può essere diretto o indiretto.

Il primo si verifica quando il cyberbullo si rivolge direttamente e personalmente alla vittima, perpetrando le sue aggressioni, ad esempio, attraverso messaggi inviati tramite chat private.
Cyberbullismo indiretto

Il cyberbullismo indiretto, invece, si verifica quando l’attacco ripetuto e continuo al bullizzato avviene in luoghi virtuali pubblici, come ad esempio nei forum o nelle bacheche dei social network. In tale ipotesi, tutti coloro che possono accedere agli attacchi vengono spesso coinvolti nei comportamenti bullizzanti, divenendone parte attiva.

Chi è il cyberbullo

Chi è quindi il cyberbullo? Di norma, ma non necessariamente, si tratta di un soggetto di età compresa tra i 10 e i 16 anni, che ha delle notevoli competenze informatiche e utilizza quindi la rete per dare libero sfogo alla sua prepotenza e per porre in essere comportamenti che nella “vita reale” non ha il coraggio di compiere, senza rendersi conto della gravità delle proprie azioni.
Crescendo, il comportamento del cyberbullo da inconsapevole diviene talvolta più articolato e simile ai maltrattamenti e agli insulti che caratterizzano il bullismo della vita reale.

Chi sono le vittime di cyberbullismo

A differenza del cyberbullo, il profilo psicologico delle vittime del cyberbullismo non è ben definito. A volte la scelta, contrariamente al bullismo in presenza, è “casuale” e le vittime possono essere persone “comuni” senza particolari caratteristiche: il cyberbullismo sui social ad esempio può nascere da una semplice discussione, da un litigio e poi amplificarsi man mano.
Ciò che è certo è che la persona perseguitata, senza supervisione degli adulti si ritrova ad essere travolta psicologicamente dagli attacchi che riceve online e comincia a manifestare segnali anche fisici, come disturbi alimentari, attaccamento spasmodico al cellulare, alterazione del sonno o del ritmo sonno-veglia, ecc.

Differenze tra bullismo e cyberbullismo

A differenza del bullismo tradizionale il cyberbullismo si caratterizza per:

la difficoltà di risalire al molestatore, visto che solitamente utilizza un profilo falso o resta “anonimo”;
l’assenza di limiti di tempo e di luogo circoscritti, considerato che l’aggressore può colpire la propria vittima a distanza e quindi senza un contatto “fisico” in qualunque momento della giornata;
la carenza o diminuzione dei freni inibitori del bullo determinata dalla mancanza di un rapporto diretto con il soggetto passivo;
il fatto che le vittime predestinate il più delle volte sono i “diversi”, ossia coloro che hanno idee, credo religioso, orientamento sessuale non convenzionali, o semplicemente soggetti timidi, insicuri o che vestono in modo particolare, antiquato o all’opposto troppo eccentrico;
le conseguenze gravi o gravissime che produce, identificabili con l’isolamento, la depressione che, nei casi più estremi, può condurre al suicidio.

Vai alla tabella su bullismo e cyberbullismo sul sito del ministero dell’istruzione
La legge sul cyberbullismo (legge n. 71/2017)

In Italia il cyberbullismo è stato disciplinato per la prima volta, in forma organica, con la legge n. 71/2017 “Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo” (sotto allegata) che, al comma 2 dell’art 1 definisce il cyberbullismo come “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità’, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti online aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo.”

Il ruolo del Miur

Come annunciato nell’art. 1 della legge interna dedicata al cyberbullismo, essa “si pone l’obiettivo di contrastare il fenomeno del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni, con azioni a carattere preventivo e con una strategia di attenzione, tutela ed educazione nei confronti dei minori coinvolti, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, assicurando l’attuazione degli interventi senza distinzione di eta’ nell’ambito delle istituzioni scolastiche”.

Per realizzare questi obiettivi è stato prevista l’adozione, da parte del Ministero dell’Istruzione di linee di orientamento, da aggiornare ogni due anni, al fine di prevenire e contrastare il cyberbullismo nelle scuole, anche attraverso la collaborazione della Polizia postale.

A tal fine occorre formare il personale docente, coinvolgere studenti ed ex studenti, promuovere bandi per finanziare i progetti scolastici di contrasto al cyberbullismo, educare alla legalità e rieducare i minori responsabili di tali condotte.

Non solo, nel caso in cui si venga a conoscenza, all’interno della scuola, di casi di cyberbullismo in cui sono coinvolti alcuni studenti dell’istituto, il dirigente scolastico ne informa gli esercenti della responsabilità genitoriale o i tutori e attua specifiche misure educative.
Forme di cyberbullismo

Gli esempi di cyberbullismo sono tantissimi. I vari comportamenti che possono integrare la fattispecie in commento sono stati racchiusi in diverse categorie, che sono utili per comprendere quando, in concreto, si verifica tale fenomeno.
Cyberstalking

Il cyberstalking è tipico di legami affettivi e si caratterizza per la tendenza del molestatore a cercare di avere dei contatti con la vittima, sempre utilizzando i sistemi digitali.
Denigration

Con il cd. denigration, il cyberbullo utilizza gli strumenti virtuali per diffondere pettegolezzi, calunnie o immagini modificate della vittima al fine di deriderla pubblicamente.
Exclusion

Si parla di exclusion, invece, quando il bullizzato viene escluso da un gruppo virtuale, con il solo scopo di emarginarlo e farlo sentire isolato e diverso.
Flaming

Con il flaming si sollecitano delle liti tra due soggetti all’interno di un gruppo pubblico o un forum. Esso consiste in provocazioni e frasi violente o verbali, scritte dal cyberbullo per il solo piacere di insultare gli altri.
Harassment

Simile al flaming è l’harassment. Anche in questo caso la condotta è rappresentata dall’insultare il prossimo, che tuttavia non è rappresentata da uno o più soggetti indistinti che partecipano alla conversazione ma da una vittima ben individuata.
Happy slapping

Si parla di happy slapping quando il cyberbullo diffonde nella rete delle immagini o dei video in cui la vittima viene picchiata. Si sposta, quindi, sul web un fenomeno di bullismo “reale” trasformandolo anche in “virtuale”.
Impersonation

Con l’impersonation, il cyberbullo si appropria indebitamente dell’identità virtuale del bullizzato e agisce fingendosi lui, in maniera tale da danneggiarne pubblicamente la reputazione.
Outing and trickery

Infine, si parla di outing and trickery quando il cyberbullismo consiste nella diffusione di informazioni personali o imbarazzanti che la vittima ha personalmente consegnato al cyberbullo, fidandosi di lui.
Sexting

Il termine deriva dalla fusione dei termini inglesi sex “sesso” e texting “inviare messaggi elettronici”. Il comportamento bullizzante in questo caso si estrinseca attraverso l’invio di messaggi, foto, testi e video di natura sessuale, trasmessi tramite internet o smartphone.
Doxing

Il termine doxing è la contrazione del termine documents ossia “documenti”. In questo caso la diffusione di informazioni personali e sensibili della vittima avviene tramite documenti appunto. Condotta che risulta fortemente lesiva della privacy della persona.

Come segnalare casi di cyberbullismo

La prima forma di tutela della dignità del minore prevista dalla legge n. 71/2017 è contenuta nell’art. 2. Ogni minore ultraquattordicenne, genitore o soggetto esercente la responsabilità può infatti inoltrare al titolare del trattamento o al gestore del sito internet o del social media un’istanza per ottenere l’oscuramento, la rimozione o il blocco di qualsiasi dato personale del minore diffuso in rete, previa conservazione dei dati originali, anche se le condotte non violino l’art 167 del legislativo 30 giugno 2003, n. 196 o altre norme.

Se entro ventiquattro ore dal ricevimento dell’istanza, il responsabile non comunica di aver assunto l’incarico di provvedere all’oscuramento, rimozione o blocco richiesto, entro quarantotto ore non vi provvede, o quando non è possibile identificare il titolare del trattamento o il gestore del sito o del social media, la domanda può essere presentata, tramite segnalazione o reclamo, al Garante per la protezione dei dati personali, che deve provvedere entro le quarantotto ore dalla ricezione della richiesta, ai sensi degli artt. 143 e 144 del d.lgs. n. 196/2003.

Cyberbullismo: conseguenze civili e penali

I cyberbulli, così come i bulli, sono puniti dalla legge. Il nostro ordinamento infatti contempla strumenti di tutela di tipo civile e penale a cui la vittima di attacchi informatici può ricorrere per tutelarsi.
Le conseguenze civili

Il fatto che il cyberbullismo sia un fenomeno che coinvolge minori non è infatti di ostacolo a una eventuale richiesta di risarcimento danni. In questi casi però la domanda non potrà essere rivolta direttamente al minore, ma ad altri soggetti. Vediamo quali.
Culpa in vigilando e in educando

L’art. 2048 c.c prevede che: “Il padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi.” Trattasi della cosiddetta culpa in vigilando e in educando, estensibile anche ai precettori e a coloro che insegnano un mestiere al minore, che sposta quindi l’obbligo risarcitorio su un soggetto diverso da quello che commette materialmente l’illecito.

I minori infatti non godono di una tutela della privacy, tanto è vero che ai genitori non viene riconosciuto solo il diritto di vigilare ed esercitare sugli stessi un controllo efficace e costante, su di loro grava un vero e proprio dovere in tal senso.

Tale dovere è talmente pregnante che i genitori o i soggetti deputati al controllo dei minori possono sottrarsi dalla responsabilità in vigilando e in educando solo se riescono a dimostrare di aver impartito un’educazione normalmente sufficiente e di non aver potuto impedire l’evento, che nel caso del cyberbullismo si traduce in una condotta prevaricatrice.

Ne consegue che, se il minore non risulta incapace d’intendere e di volere (come previsto dall’art. 2046 c.c.), per legge i genitori sono presuntivamente responsabili per omessa vigilanza o per difetto di educazione del minore.
La responsabilità della scuola
Se poi l’episodio di cyberbullismo si realizza all’interno della scuola, essa è civilmente responsabile ai sensi dell’art. 28 della Costituzione e dell’articolo 61 della legge n. 312/1980, a causa del rapporto organico che caratterizza il personale dipendente dell’istituto scolastico.
In ambito scolastico pertanto la responsabilità grava sul personale docente, il quale però non risponde personalmente nei confronti dei terzi. A rispondere è infatti l’Amministrazione sulla quale grava la responsabilità civile, salvo rivalsa da parte dello Stato verso l’insegnante nei soli casi di dolo o colpa grave.
Le voci di danno risarcibili

Per quanto riguarda poi le voci di danno risarcibili, il cyberbullismo, come nei fenomeni di bullismo ordinario, è in grado di produrre danni non patrimoniali, tra cui figurano principalmente il danno morale e quello biologico se il malessere della vittima è talmente grave da tradursi in una malattia del corpo, oltre a quello reputazionale e d’immagine.

La sentenza del Tribunale di Sulmona n. 103/2018 inoltre ha riconosciuto a una ragazzina vittima di cyberbullismo da parte dei coetanei, che hanno diffuso una sua fotografia senza indumenti, un risarcimento del danno di svariate decine di migliaia di euro per aver leso con queste condotte interessi relativi alla sfera della persona, costituzionalmente rilevanti e protetti dall’art. 2 della Costituzione, come il diritto alla riservatezza, alla reputazione, all’onore e all’immagine.

Le conseguenze penali

Dalla lettura della definizione giuridica del cyberbullismo, unitamente all’art. 7 della legge n. 71/2017 emerge invece chiaramente che le fattispecie penali che possono essere violate con questa forma di aggressione sono diverse.

Ora, se il reato di ingiuria (art. 594 c.p.) è stato depenalizzato, tanto che oggi è un illecito civile, l’art 595 c.p. contempla il reato di diffamazione, mentre il 612 c.p descrive e sanziona le minacce.

Dal punto di vista penale l’art. 7 richiama anche l’art. 167 del Codice per la protezione dei dati personali, dedicato al reato di trattamento illecito di dati, che punisce con la reclusione chiunque, al fine di trarne profitto o recare danno a terzi, tratti i dati personali in modo non conforme alle disposizioni richiamate. A questa elencazione, prevista ai fini dell’ammonimento, devono aggiungersi altre condotte penalmente rilevanti. Si tratta dei reati di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p), pornografia minorile (art. 600 ter c.p), detenzione di materiale pornografico (art. 600 quater c.p), diffusione materiale pedopornografico (art. 600 ter c.p), interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.), lesioni (art. 582 c.p.).
Cosa rischia un minore

Prima d’intraprendere un’azione penale attraverso la presentazione di una denuncia o di una querela per i reati di cui agli artt. 594, 595,612 c.p e 167 d.lgs. n. 196/2003, se l’azione è stata commessa da un minore ultraquattordicenne nei confronti di altri ultraquattordicenni tramite la rete internet, è prevista la possibilità di ricorrere alla procedura di ammonimento contemplata dall’art. 8, commi 1 e 2, del dl n. 11/2009 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” convertito, con modifiche dalla legge n. 38/2009 e successive modificazioni. L’ammonimento prevede la convocazione del minore responsabile e di un genitore o di un soggetto che ne esercita la responsabilità genitoriale e i suoi effetti cessano nel momento in cui l’ammonito raggiunge la maggiore età.

L’istanza deve essere presentata al Questore che, assunte le necessarie informazioni, in sede di convocazione “ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti e’ stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale”.
Cosa rischia un maggiorenne

Nelle ipotesi, rare ma non impossibili, in cui il cyberbullo sia un maggiorenne, le conseguenze della sua condotta sono quelle già viste per i minorenni.

Tuttavia, a rispondere in via penale e/o civile delle proprie azioni è direttamente il responsabile e non i genitori.
Fonte Studio Cataldi

12 Feb

Suprema Corte Cassazione: etilometro strumento affidabile quando sottoposto ai controlli periodici

Sentenza Penale Sent. Sez. 4 Num. 3515 Anno 2022 depositata 01.02.2022

Nuova sentenza della Cassazione su GUIDA IN STATO DI EBBREZZA con l’ennesimo tentativo di smontare l’utilizzo dell’unico strumento che disinnesca “bombe umane” alla guida.
Ecco la breve storia: con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Vasto del 10 settembre 2018, con cui X Y
era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di arresto e di euro mille di ammenda, con applicazione della sospensione della patente di guida per la durata di mesi diciotto, in relazione al reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. c), C.d.S. (guida in stato di ebbrezza di auto VW Passat con tasso alcolemico pari a 3,63/3,51 g/I — in San Salvo il 24 aprile 2015).

La Corte territoriale ha evidenziato che, in base alle prove orali e documentali
acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale, era stato dimostrato il corretto funzionamento dell’apparecchio utilizzato dagli operanti per effettuare l’alcoltest e che, comunque, il ricorrente non aveva sollevato contestazioni specifiche sul punto.

La circostanza che/gli agenti della Polizia Municipale di San Salvo (CH), essendo
sprovvisti dell’apparecchio, avevano condotto l’imputato presso gli uffici della Polizia Stradale dove era stato effettuato l’alcoltest, aveva comportato conseguenze solo favorevoli al X Y, avendo procrastinato l’espletamento dell’accertamento, consentendo così un’ulteriore riduzione del tasso alcolemico.
L’esito dell’accertamento evidenziava un tasso alcolemico estremamente elevato, per cui appariva difficile ricondurlo al consumo di alcuni cioccolatini “MonCherì” notoriamente contenenti una quantità di liquore irrisoria. In ogni caso, a prescindere dalla natura della sostanza ingerita, permaneva il dato obiettivo costituito dal riscontro di un elevatissimo tasso alcolemico riscontrato.

Ricorso è stato dichiarato inammissibile, in quanto è basato su motivi manifestamente infondati o non proponibili in sede di legittimità.
Tra le motivazioni individuate dalla Cassazione si è altresì precisato che l’esito positivo dell’alcoltest costituisce prova dello stato di ebbrezza – stante l’affidabilità di tale strumento in ragione dei controlli periodici rivolti a verificarne il perdurante funzionamento successivamente all’omologazione e alla taratura – con la conseguenza che è onere della difesa dell’imputato fornire la prova contraria a detto accertamento, dimostrando l’assenza o l’inattualità dei prescritti controlli, tramite l’escussione del dirigente del reparto addetto ai controlli o la produzione di copia del libretto metrologico dell’etilometro (Sez. 4, n. 24424 dell’08/06/2021, Enas, non massimata; Sez. 4, n. 25742 del 04/03/2021, Galloni, Rv. ancora non determinato; Sez. 4, n. 11679 del 15/12/2020, dep. 2021, Ibnezzayer, Rv. 280958).

Il fatto che siano prescritte, dall’art. 379 Reg. esec. C.d.S., l’omologazione e la periodica verifica dell’etilometro non significa, dunque, che, a sostegno dell’imputazione, l’accusa debba immediatamente corredare i risultati della rilevazione etilometrica coi dati relativi all’esecuzione di tali operazioni: tali dati (in quanto riferiti ad attività necessariamente prodromiche al momento della misurazione del tasso alcolemico sull’imputato) non hanno di per sé rilievo probatorio ai fini dell’accertamento dello stato di ebbrezza dell’imputato.

Fonte Asaps

12 Feb

Revenge porn: come difendersi

di E. Fierimonte

Come può difendersi la vittima del revenge porn con gli strumenti messi a disposizione dal legislatore

Cos’è il revenge porn?

Prima ancora di affrontare la tematica dei mezzi che la l’ordinamento penale mette a disposizione per la vittima di questo reato diamo la definizione di “Revenge Porn” (o “Revenge Pornography”).
La norma in questione, al primo comma, fa una descrizione completa della condotta penalmente rilevante: “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”.
Sotto il profilo strettamente legato al soggetto attivo, trattasi di reato comune, introducendo, la norma, con “chiunque”, seppur precisando che deve trattarsi di diffusione di materiale realizzato o sottratto dall’autore del reato.
Ma vediamo con attenzione la condotta sanzionata dalla norma.
Trattasi di reato punito dall’art. 612-ter del codice penale quale “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”.

La condotta punita dall’art. 612-ter c.p.

La condotta punita consiste nella diffusione, cessione, consegna e pubblicazione di immagini o contenuti video a contenuto sessuale esplicito, in assenza del consenso della persona ritratta.
Proprio tale ultima circostanza (l’assenza di consenso) consiste nella condizione necessaria per l’integrazione del reato in questione.

Qual è lo scopo dell’autore di revenge porn?

Sicuramente esercitare una forma di pressione, spesso espressione di una volontà di vendetta da parte dell’autore nei confronti della vittima, per qualche torto subito da quest’ultima, ad esempio una infedeltà coniugale, la conclusione di una relazione affettiva, o addirittura un guadagno economico.
Quali pene sono previste per chi commette questo tipo di reato?

La pena applicata in caso di revenge porn è la reclusione da uno a sei anni (pena detentiva) e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000 (pena pecuniaria).
La medesima pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.
È previsto un aumento della pena “se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici”, ovvero “la pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”.
Ma veniamo ora al dunque!

Quali strumenti ha a disposizione la vittima di revenge porn?

Innanzitutto la vittima potrà rivolgersi ai Carabinieri o alla Polizia di Stato e presentare una denuncia orale. Le verrà rilasciato un verbale di ricezione firmato dagli operanti e dalla vittima stessa.

Differentemente, qualora la volontà della persona offesa sia quella di attivarsi al fine di chiedere la punizione del responsabile penale, potrà depositare presso la Procura della Repubblica territorialmente competente un atto di denuncia querela (redatto dalla medesima o da un professionista del settore).
Il termine per la presentazione della querela è di sei mesi, aggiungendosi, così, il revenge porn a quei reati di allarme sociale tale da richiedere, anche ai fini del rafforzamento della tutela della vittima, un termine più dilatato rispetto a quello ordinario di tre mesi.
La remissione può essere soltanto processuale (altro caso quello dello stalking).
Si procede, tuttavia, d’ufficio nei casi di cui al quarto comma dell’art. 612 ter c.p., nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

La vittima potrà, in un successivo giudizio e nella fase prevista, depositare un atto di costituzione di parte civile al fine di chiedere un risarcimento dei danni subiti dalla condotta del suo autore.

Fonte Studio Cataldi

12 Feb

Autovelox, ecco come può difendersi il cittadino

di G. Lax

Parola all’avvocato Fabio Capraro, esperto in materia di autovelox e sulle problematiche di omologazione di tali strumenti

Autovelox, come difendersi in caso di multe?

Torniamo a parlare di autovelox. Sono ben 8.000 nel nostro Paese, mentre in Gran Bretagna sono la metà (4.000). Ma il rischio è che nessuno strumento sia tarato a norma di legge. Cosa può fare, quindi, un automobilista che riceve una multa? Lo abbiamo chiesto all’avvocato Fabio Capraro, esperto per quanto riguarda il tema delle omologazioni e ospite di recente alla trasmissione Mi manda Rai tre, insieme al consulente tecnico investigativo Giorgio Marcon.
Avvocato, come può difendersi il cittadino che si trova una multa per autovelox?

Il cittadino a cui è stata notificata una multa
per eccesso di velocità rilevata a mezzo autovelox può, laddove ne sussistano i presupposti, impugnare il verbale di contestazione nei termini di legge. Il cittadino ha, quindi, 30 giorni di tempo dalla notifica del verbale per impugnarlo avanti il Giudice di Pace competente, ovvero 60 giorni di tempo per impugnarlo avanti al Prefetto.

Uno dei motivi per cui il cittadino potrebbe impugnare un verbale di contestazione per eccesso di velocità potrebbe essere la mancata omologazione dello strumento utilizzato per l’accertamento della violazione.

I dispositivi utilizzati dai Comuni, per accertare il superamento dei limiti di velocità imposti dal Codice della Strada, non risultano essere omologati, in quanto non sono ancora state emanate specifiche norme attuative per l’omologazione. Nella maggior parte dei casi è presente solamente una Determina dirigenziale di approvazione che non può considerarsi l’equivalente di un decreto di omologazione. Si tratta di due concetti nettamente distinti tra di loro.

In base al Codice della Strada, come dovrebbero essere impiegate le entrate derivanti dalle sanzioni elevate per eccesso di velocità rilevato mediante autovelox?

L’art. 142 c. 12 bis, 12 ter, 12 quater C.d.S. fornisce la risposta a tale interrogativo. Sostanzialmente, i suddetti proventi sono attribuiti in misura pari al 50 % ciascuno, all’ente proprietario della strada su cui è effettuato l’accertamento e all’ente da cui dipende l’organo accertatore.

Gli enti dovrebbero destinare le somme derivanti dall’attribuzione delle quote dei proventi delle suddette sanzioni alla realizzazione di interventi di manutenzione/messa in sicurezza delle infrastrutture stradali nonché al potenziamento delle attività di controllo e degli accertamenti in materia di violazione stradale. Ciascun ente dovrebbe trasmettere in via informatica al M.I.T. e al Ministero dell’interno entro il 31 maggio di ogni anno, una relazione in cui sono indicati l’ammontare dei proventi di propria spettanza come risultante da rendiconto approvato nel medesimo anno e gli interventi realizzati.

La percentuale di detti proventi è ridotta del 90 % annuo nei confronti dell’ente che non trasmetta la relazione nell’indicato termine ovvero che utilizzi i proventi in modo difforme da quanto stabilito. Lo scopo di dispositivi, come gli autovelox, dovrebbe essere, quindi, quello di tutelare la sicurezza della circolazione e di preservare l’integrità fisica degli individui, evitando che si verifichino, nell’area in cui il dispositivo è installato, tassi elevati di incidentalità. Eppure i dispositivi non possono ritenersi preposti alle suddette finalità e vengono, piuttosto, utilizzati quale strumento volto alla remunerazione economica e per rimpinguare le casse degli enti locali.

Come si può sapere se uno strumento è omologato o meno?

Per sapere se il dispositivo utilizzato per l’accertamento della violazione del Codice della Strada sia omologato o meno è necessario, innanzitutto, guardare l’indicazione della tipologia di dispositivo nel verbale di contestazione notificato nonché verificare la seguente dicitura “regolarmente approvato dal competente M.I.T. (Omolog. Decreto n….. del ……..)”.

Una volta ricercato il numero del decreto riportato nel verbale, bisogna verificare, all’interno del decreto stesso, se si tratta effettivamente di approvazione od omologazione. Se viene riportato “è approvato il sistema denominato …….” allora il dispositivo non può intendersi omologato. In detti casi, infatti, non può parlarsi di decreto di omologazione in quanto si tratterà semplicemente di approvazione del dispositivo.
Quanto influisce la mancanza di una interpretazione univoca della normativa?

A parere dello scrivente, si precisa che omologazione ed approvazione sono due procedimenti nettamente differenti.

Anzitutto, l’art. 192 del Regolamento di Attuazione al C.d.S., con riferimento all’art. 45 C.d.S., distingue espressamente i due significati che non possono, quindi, essere utilizzati come sinonimi. In tal senso, anche l’art. 111 del DPR n. 610 del 16 settembre 1996 comma d) e comma e), fa riferimento all’art. 405 del Regolamento di attuazione al C.d.S., distinguendo il costo amministrativo.

Secondariamente, l’art. 142 C.d.S., al comma 6, prevede che: “per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate, anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento”.

La norma in parola è pertanto inequivoca nel richiedere il requisito dell’omologazione, cosa diversa dall’approvazione menzionata nel verbale. La difformità rispetto al dettato normativo è palese e ciò basterebbe a rendere nullo il verbale di contestazione. Ma vi è di più. La frequente apparente confusione tra i due termini non è certo imputabile alla norma di cui all’art. 142 C.d.S. ma all’utilizzo che ne fa il Legislatore in molteplici altre norme del Codice della Strada, ingenerando una certa confusione esegetica. Dalla suddetta confusione esegetica deriva la mancata uniformità delle pronunce dei Giudici di merito, sul punto, nel territorio italiano.

Fonte Studio Cataldi

5 Feb

Art. 32 Costituzione

di M. Sicolo

Guida all’articolo 32 della Costituzione, che tutela la salute degli individui e limita i trattamenti sanitari obbligatori
costituzione della repubblica italiana

Che cos’è il diritto alla salute

L’articolo 32 della Costituzione si occupa della tutela della salute, elevandola a diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.

Ma che cos’è il diritto alla salute?

Si tratta del diritto di ogni individuo a godere di un benessere innanzitutto fisico, ma anche psicologico e sociale, indispensabile per una corretta integrazione nel proprio ambiente naturale.

La lesione del diritto alla salute determina l’obbligo, per il responsabile, di risarcire il danno sempre e comunque, anche se il danneggiato non è capace di produrre reddito.

Del resto, come accennato, la Costituzione considera la salute non solo un diritto del singolo, ma un’interesse della collettività e quindi un elemento del patrimonio sociale comune.
Le cure agli indigenti

Questo ultimo aspetto emerge indirettamente anche dalla tutela apprestata dal nostro ordinamento alla salute degli indigenti che, per espressa previsione dell’articolo 32 della Costituzione, è garantita dalla Repubblica.

Non a caso in Italia è stato istituito un servizio sanitario nazionale rivolto a tutti i cittadini, quali che siano le loro condizioni economiche, ma anche giuridiche o sociali.
Art. 32 Costituzione e TSO

Il secondo comma dell’art. 32 Costituzione prevede un importante principio da rispettare nella tutela della salute degli individui, con il quale questa deve sempre confrontarsi.

Si sancisce, infatti, che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e che la legge non può comunque violare mai i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Il principio viene in rilievo innanzitutto con riferimento ai TSO, la cui legittimità è subordinata al rispetto di specifiche e fondamentali prescrizioni. Su di essi è intervenuta, ad esempio, la Corte costituzionale che, con la sentenza numero 307/1990, ha sancito che di per sé la legge che impone un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 Costituzione; è però indispensabile, a tal fine, che il trattamento sia volto non solo a migliorare o tutelare la salute di chi vi è assoggettato ma anche a preservare la salute degli altri. Infatti, si legge in sentenza, “è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”.

Art. 32 Costituzione e consenso informato

Il secondo comma dell’articolo 32 è alla base anche della disciplina del consenso informato, che deriva dal principio secondo il quale, se non vi è un’esigenza di tutela della salute della collettività, non è possibile imporre un trattamento sanitario.

In tale contesto si inserisce il consenso informato, che è quello che ogni paziente deve prestare prima di sottoporsi a ogni intervento terapeutico e che si caratterizza per una compiuta informazione che il medico deve dare al paziente circa tutte le caratteristiche e tutti i risvolti possibili o probabili dello stesso.

Articolo 32 e vaccino obbligatorio

L’importanza dell’articolo 32 della Costituzione è stata messa in risalto negli ultimi tempi, per via della questione sul vaccino obbligatorio per far fronte all’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia per Covid scatenata dalla diffusione del coronavirus.

Il tema dell’obbligatorietà del vaccino è al centro dei più importanti dibattiti medico-politici in Italia e in tutto il mondo, ed è proprio il secondo comma dell’art. 32 Cost. a offrire la soluzione dirimente su questo problema.

Infatti, nonostante numerose voci contrarie, sia in ambito politico che nei discorsi della gente comune, tale disposizione appare sufficientemente chiara nello stabilire che la legge può prevedere l’obbligatorietà di un trattamento sanitario, qual è, appunto, la vaccinazione.

Sebbene, infatti, la stessa Costituzione garantisca la libertà personale come inviolabile, essa deve cedere il passo nei confronti del diritto alla salute della collettività.

Ovviamente, la compressione del diritto a non sottoporsi ad un trattamento sanitario può essere realizzata solo in presenza di alcuni presupposti: in particolare, oltre che a tutelare l’interesse primario di tutela della salute collettiva, il trattamento deve essere tale da non incidere, se non in maniera tollerabile, sullo stato di salute dell’individuo ad esso sottoposto.

Per tale motivo, il vaccino, ritenuto non dannoso – nei termini appena esposti – per la salute dell’individuo che lo riceve, rappresenta un tipo di trattamento sanitario suscettibile di essere previsto quale misura obbligatoria per legge.

Per approfondimenti sul punto, vedi anche la nostra guida: “Vaccino Covid: si può imporre?”, ove vengono citate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 258/1994 e 307/1990 con le quali fu sancito, tra l’altro, il diritto a un indennizzo in caso di danno alla salute della persona dovuto al trattamento sanitario obbligatorio e che evidenziavano come la legge impositiva di un trattamento sanitario non fosse incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se mirata a preservare lo stato di salute degli altri, giustificando la compressione dell’autodeterminazione dell’uomo per tutelare il fondamentale diritto alla salute.

Sentenze più recenti, inoltre, hanno ribadito la legittimità del vaccino obbligatorio (v. Corte Cost. nn. 268/17 e 5/18), aprendo la strada alle disposizioni adottate dal governo: guida all’organo esecutivo dello Stato” href=”https://www.studiocataldi.it/articoli/33802-governo.asp” class=”keyword-link”>Governo in tempi di pandemia, a cominciare dal d.l. 44/2021 e s.m.i. con cui è stato disposto l’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, per il personale scolastico e per i dipendenti del comparto difesa, e, da ultimo, per gli over 50, cioè per chi abbia compiuto il cinquantesimo anno di età (D.L. n. 1/2022).

Il testo dell’art. 32 Costituzione

Riportiamo qui di seguito il testo dell’articolo 32 Costituzione.

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Fonte Studio Cataldi

5 Feb

Il passo carrabile

di V. Zeppilli

Il passo carrabile, o passo carraio, secondo l’art. 3 del codice della strada, è l’accesso ad un’area laterale idonea allo stazionamento di uno o più veicoli
un passo carrabile

Passo carrabile: artt. 3 e 22 codice della strada

Il passo carrabile, detto anche passo carraio è, in sostanza, uno sbocco di un’area privata su un’area di passaggio pubblico (ad esempio, di un garage su una strada), identificato da un apposito cartello che permette di uscire liberamente e impedisce che dinanzi ad esso possano sostare veicoli (neanche quelli del titolare del passo carrabile).
Passo carrabile: fermata consentita

È in ogni caso permessa la breve sosta per il carico e lo scarico delle merci. E’ consentita anche la fermata, salvo casi specifici, e purchè il veicolo non sia d’intralcio.
Estensione del divieto

Il divieto di sostare in corrispondenza del passo carrabile si deve intendere esteso a tutta l’area necessaria alla fruizione effettiva dell’accesso da parte del titolare. In taluni casi, peraltro, il divieto di sosta può essere esteso (con opportune indicazioni, da parte degli enti proprietari della strada) anche alla porzione di strada opposta al passo carrabile laddove risulti un impedimento alle manovre di entrata e di uscita.
La normativa sul passo carrabile

La normativa di riferimento per il passo carrabile
è rappresentata dall’articolo 3 e dall’articolo 22 del codice della strada, dall’articolo 46 del relativo regolamento attuativo e dalle discipline locali che ne regolamentano i presupposti, le condizioni e le modalità per il rilascio.

Passo carrabile: come si richiede e quanto costa

Infatti, i privati non possono decidere autonomamente di posizionare, dinanzi al proprio garage, al proprio portone o allo sbocco di una strada di loro esclusiva proprietà, un passo carrabile, acquistando il relativo cartello, ma devono preventivamente chiedere l’autorizzazione al Comune di riferimento, pagando il costo.
Costi del passo carrabile

La tassa per il passo carrabile, essendo di competenza dell’ente locale, varia da Comune a Comune.

Il calcolo avviene per profondità (che in genere è di un metro) e non per larghezza. Si tratta infatti di una tassa relativa all’occupazione di suolo pubblico e varia in base a diversi parametri (ad es. area di richiesta, superficie, attività), l’insieme dei quali fornisce il canone (annuo) da pagare per l’ottenimento del passo carrabile.

In alcuni casi, la concessione del passo carrabile avviene a titolo gratuito. Il riferimento va, nel dettaglio, agli accessi ai locali delle Pubbliche Amministrazioni, agli uffici giudiziari, alle sedi delle forze dell’ordine e alle associazioni di volontariato.

Non devono pagare la tassa, poi, neanche i portatori di handicap.
Procedura di rilascio

Anche la procedura di rilascio è disciplinata a livello locale e per avere informazioni su di essa è quindi necessario recarsi presso lo sportello competente o la pagina dedicata del sito web dell’ente.

In ogni caso, tendenzialmente viene richiesto di compilare una modulistica, nella quale il richiedente deve inserire i propri dati anagrafici, il proprio codice fiscale, l’indicazione di residenza e domicilio e le informazioni necessarie per identificare il locale o l’area interessata. Vanno poi pagate delle marche da bollo iniziali, mentre il canone previsto per la concessione ha in genere cadenza annuale.

Come deve essere il passo carrabile

All’esito della procedura di rilascio, il Comune concede al richiedente un segnale apposito che deve essere affisso sul confine tra la proprietà privata e il suolo pubblico, in maniera da risultare ben visibile dalla strada.
Il segnale di passo carrabile

Il segnale è legittimo quando riporta i seguenti dati:

il nome e lo stemma del Comune che ha autorizzato il passo carrabile,
il numero dell’autorizzazione,
il segnale di divieto di sosta,
la scritta passo carrabile.

Se queste informazioni mancano, il segnale non ha alcun valore e chi lo utilizza è assoggettato alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 41 a euro 169.
Realizzazione del passo carrabile

La realizzazione del passo carrabile deve essere fatta nel rispetto di precise condizioni dettate dal regolamento attuativo del codice della strada.

In particolare, il segnale va realizzato osservando le seguenti condizioni:

deve essere distante almeno 12 metri dalle intersezioni;
deve essere visibile da una distanza pari allo spazio di frenata risultante dalla velocità massima consentita nella strada;
deve consentire l’accesso a un’area laterale idonea allo stazionamento o alla circolazione dei veicoli;
nel caso in cui l’accesso alle proprietà laterali sia destinato anche a notevole traffico pedonale, l’entrata carrabile e quella pedonale devono essere separate.

Passo carrabile provvisorio

Nel caso di apertura di cantieri o altre esigenze simili è possibile aprire dei passi carrabili provvisori.

Anche in tali casi devono essere rispettate le prescrizioni appena viste, ma, se le distanze dall’intersezione non possono essere rispettate, deve essere disposta un’idonea segnalazione di pericolo.
Le multe per i trasgressori

Oltre alla multa per chi esibisce un passo carrabile “falso”, il codice della strada prevede determinate sanzioni per chi sosta nell’area antistante il segnale di passo carrabile autorizzato.

L’art. 158, comma 2, lett. a) del Codice della strada prevede infatti il divieto di sosta allo sbocco dei passi carrabili e per i trasgressori è prevista una multa da 25 a 100 euro per ciclomotori e motoveicoli a due ruote e da 42 a 173 euro per gli altri veicoli.

Le sanzioni si applicano per ogni giorno di calendario per il quale si protrae la violazione.

Fonte Studio Cataldi

5 Feb

Autovelox: verbale annullato se non si prova la responsabilità

di A. Villafrate

Annullato il verbale con cui è stato contestato il superamento del limite di velocità accertato con l’autovelox, manca la prova dell’illecito
autovelox in autostrada

Autovelox ed eccesso di velocità: serve la prova dell’illecito

Il Giudice di pace di Barcellona Pozzo di Gotto, con la sentenza n. 458/2021 (sotto allegata) accoglie il ricorso della società ricorrente a cui è stata contestata la violazione del rispetto dei limiti velocità, rilevata a mezzo autovelox. Ai fini della decisione hanno pesato le contestazioni del ricorrente sul mancato rispetto periodico delle verifiche e tarature dell’apparecchiatura che ha rilevato la violazione dei limiti di velocità e il fatto che dagli atti non è emersa la prova della responsabilità del ricorrente per il fatto illecito.
Mancato rispetto controlli periodici e mancata prova della responsabilità

Una S.r.l ricorre al Giudice di Pace per opporsi alla contestata violazione dell’art. 142, comma 9 del Codice della Strada
, per il superamento del limite di velocità rilevato a mezzo autovelox. Parte ricorrente contesta il regolare funzionamento dell’apparecchiatura a causa della mancata verifica e taratura periodiche, che devono essere eseguite per legge.

Il ricorrente rileva che l’attestazione, la verifica della funzionalità e il certificato di taratura risalgono al 2019 e poiché sono risalenti nel tempo, non possono considerarsi attendibili.

Ricorda che sul punto la Corte Costituzionale ha sottolineato la necessità della taratura periodica regolare per procedere alla manutenzione delle apparecchiature che rilevano la velocità “prescrivendo quale termine minimo ai fini delle verifiche circa la taratura quello di almeno un anno dall’utilizzazione attestato da certificazioni di omologazione e conformità idonee.”

Per il ricorrente la contestazione della violazione presenta un indice d’incertezza, senza contare che l’Amministrazione non ha dimostrato pienamente la sussistenza di fatti costitutivi della violazione, né dagli atti emergono elementi tali da poter ritenere certo l’addebito contestato.
Verbale annullato, manca la prova dell’illecito

Il Giudice di Pace di Barcellona Pozzo di Gotto, in ragione delle contestazioni sollevate dal ricorrente, accoglie il ricorso e annulla il verbale di contestazione, con condanna del Comune alle spese.

Ai sensi del comma 11, art. 6 del decreto legislativo n. 150/2011 infatti “Il giudice accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente.”

Fonte Studio Cataldi

31 Gen

Il delitto di pedopornografia minorile Law In Action

di P. Storani

La panoramica di Leonardo Ercoli affronta il tema della condotta di produzione di materiale pedopornografico previo consenso del minore
contenuto pornografico vietato ai minori

La condotta di produzione di materiale pedopornografico, previo consenso del minore, è un argomento fortemente dibattuto in giurisprudenza, tant’è che sul tema – nonostante la pronuncia delle Sezioni Unite risalente al 2018 – la Suprema Corte di Cassazione ha comunque ritenuto di non poter procedere a dirimere la questione sottopostale senza mettere in discussione quanto precedentemente affermato a Sezioni Unite nella sentenza n. 51185/2018; pertanto, con l’ordinanza di cui al pregevole commento dell’Avv. Prof. Leonardo Ercoli, la S.C. pone il seguente quesito alle Sezioni Unite: «Se il reato di cui all’art. 600 ter, comma 1, n. 1, c.p., risulti escluso nell’ipotesi in cui il materiale pedopornografico sia prodotto, ad esclusivo uso privato delle persone coinvolte, con il consenso di persona minore, che abbia compiuto gli anni quattordici, in relazione ad atti sessuali compiuti nel contesto di una relazione affettiva con persona minorenne che abbia la capacità di prestare un valido consenso agli atti sessuali, ovvero con persona maggiorenne».
Lasciamo la parola a Leonardo Ercoli, che ci guida con sicurezza e competenza nei meandri di questo ostico tema.

INFORMAZIONE PROVVISORIA DELLE SEZIONI UNITE SULLA CONDOTTA DI PRODUZIONE DI MATERIALE PEDOPORNOGRAFICO COL CONSENSO DEL MINORE

(dell’avv. prof. Leonardo Ercoli docente ed avvocato penalista)

RILEVANZA PENALE DELLA PEDOPORNOGRAFIA DOMESTICA IN CASO DI CONSENSO DEL MINORE

Cass., Sez. III, ord. 22 aprile 2021 (dep. 1° luglio 2021), n. 25334,

Cass. pen., Sez. Un., u.p. 28 ottobre 2021, Pres. Cassano, Rel. Sarno

(informazione provvisoria)

  1. Inquadramento generale della disciplina: l’art. 600-ter cp.
  2. Le Sezioni Unite n. 51185 del 31 Maggio 2018
  3. Gli Ermellini mettono in discussione l’obiter dictum delle Sezioni Unite del 2018 con ordinanza n. 25334/2021
  4. L’informazione provvisoria delle Sezioni Unite del 28 ottobre 2021

  1. Inquadramento generale della disciplina: l’art. 600-ter c.p.

Al fine di comprendere al meglio la portata delle pronunce in esame relative, come detto, alla complessa materia della pedopornografia minorile, giova, preliminarmente, operare talune, seppur brevi, considerazioni di carattere generale proprio in ordine al reato de quo, previsto e punito ex art. 600-ter c.p. per cui:

«È punito con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa da euro 24.000 a euro 240.000 chiunque:

1) utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico; 2) recluta o induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni o spettacoli pornografici ovvero dai suddetti spettacoli trae altrimenti profitto [600 septies, 600 septies.1, 600 septies.2, 602 ter].

Alla stessa pena soggiace chi fa commercio del materiale pornografico di cui al primo comma.

Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui al primo e al secondo comma, con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, distribuisce, divulga, diffonde (3) o pubblicizza il materiale pornografico di cui al primo comma, ovvero distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 2.582 euro a 51.645 euro [600 septies, 600 septies.1, 600 septies.2, 602 ter].

Chiunque al di fuori delle ipotesi di cui ai commi primo, secondo e terzo, offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, il materiale pornografico di cui al primo comma, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1.549 a euro 5.164 [600 septies, 600 septies.1, 600 septies.2, 602 ter, 609 decies, 734 bis].

Nei casi previsti dal terzo e dal quarto comma la pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale sia di ingente quantità.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque assiste a esibizioni o spettacoli pornografici in cui siano coinvolti minori di anni diciotto è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1.500 a euro 6.000 [600 septies, 600 septies.1, 600 septies.2].

Ai fini di cui al presente articolo per pornografia minorile si intende ogni rappresentazione, con qualunque mezzo, di un minore degli anni diciotto coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualunque rappresentazione degli organi sessuali di un minore di anni diciotto per scopi sessuali».

Con il delitto in parola, introdotto con legge del 3 agosto 1998, n. 269, il legislatore – mosso da un desiderio repressivo indotto dal bene giuridico tutelato, individuabile nell’immagine, nella dignità e nel corretto sviluppo sessuale del minore – ha inteso individuare per i minori una soglia di tutela anticipata della loro libertà sessuale, sanzionando, indipendentemente dalla finalità di lucro o di vantaggio, ogni fase del relativo ambito, sia moltiplicando le previsioni, sia – come detto – anticipando la tutela penale a condotte apparentemente prive di una concreta e diretta idoneità offensiva. Si va, infatti, dalla mera divulgazione di notizie finalizzate all’adescamento minorile e dal reclutamento dei minori a tal fine, alla realizzazione di spettacoli a sfondo sessuale con il coinvolgimento di soggetti minorenni, alla diffusione tra gli utenti, a qualsiasi titolo, del materiale realizzato con tali categorie di soggetti. Il reato, in tutte le sue articolazioni, è un reato comune, che può essere commesso da ‘chiunque’; peraltro, l’autore del fatto deve essere soggetto diverso dal minore immortalato (Cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. III, n. 34357/2017; Cass. Pen., Sez. III, n. 11675/2016 co nota di ALOVISIO-VENTURA).

Ad ogni buon conto, il vero fondamento dell’intera disciplina in tema di delitti in materia di pornografia minorile è proprio il concetto di ‘pornografia minorile’ al quale le norme fanno riferimento e di cui l’art.4 co. 1 lett. h) n.2 della legge 1° ottobre 2012, n.172 ha dato una espressa definizione, inserendola al co.7 dell’articolo 600-ter c.p. che espressamente lo definisce quale ogni rappresentazione, con qualsiasi mezzo, di un soggetto minorenne coinvolto in attività sessuali esplicite, reali o simulate, o qualsiasi rappresentazione degli organi sessuali di un minore a scopi sessuali. In verità, è d’uopo evidenziare come, l’anzidetta nozione (tratta, peraltro, dall’art. 20 della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale del 2007), pur tentando di aiutare l’operato dell’interprete, non è andata esente da molteplici dubbi circa i possibili inquadramenti degli altrettanti molteplici casi concreti che, nel quotidiano, si verificano.

Sotto il profilo oggettivo, come detto, la norma incriminatrice sanziona diversamente più condotte. In particolare, il primo comma, considera distinte condotte tipiche, tutte predisposte contro un soggetto, di sesso maschile o femminile, che non abbia compiuto i diciotto anni (MANTOVANI). La prima condotta è quella del reclutamento da intendersi quale reperimento della vittima allo scopo di indirizzarla alla pornografia (MANTOVANI). Altra condotta tipizzata è quella dell’induzione a partecipare a esibizioni o a spettacoli pornografici. L’induzione che – al pari di quella prevista per la prostituzione (art. 600-bis) – può consistere nella determinazione, nella rivitalizzazione o nel determinare la reviviscenza della decisione del minore di darsi alla pornografia. Trattasi, dunque, di reato di evento, in cui quest’ultimo è duplice giacché integrato in primo luogo dal risultato psichico dell’insorgenza o del rafforzamento del proposito di darsi alla pornografia e in secondo luogo dal risultato materiale della partecipazione ad almeno un’esibizione (MANTOVANI).

Terza condotta penalmente illecita punita dal co. 1 della norma in esame è quella relativa alla realizzazione di esibizioni o spettacoli pornografici e consiste nello svolgimento di tutte le attività funzionali alle esibizioni o spettacoli per le quali, ad avviso della giurisprudenza maggioritaria, è necessario almeno un minimo di organizzazione (Cfr. Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 17178/2010).

Vi è poi – per ciò che rileva ai fini del tema in esame – la condotta tesa alla produzione di materiale pornografico reale e cioè nella cristallizzazione delle suddette esibizioni su supporti di qualsiasi genere, audio e video (MANTOVANI) su cui si dirà nel prosieguo della trattazione limitandosi, in tal sede, a precisare che si tratta di una norma di chiusura che mira a sanzionare ogni condotta che non rientri nelle altre (MANTOVANI). Ultima condotta penalmente sanzionata nell’alveo del primo comma, è quella relativa a ricavare profitto da spettacoli pornografici. Tuttavia, sia la realizzazione delle esibizioni o degli spettacoli che la produzione di materiale pornografico richiedono l’utilizzazione di minori, intesa quale sfruttamento dei medesimi per quegli scopi, senza che, tuttavia, a tale concetto sia collegata la necessità di un lucro per l’autore del fatto (FIANDACA-MUSCO; Cfr, inoltre, Cass. Sez. Un., sent. n. 51815/2018). Infine, appare evidente che, trattandosi di norma a più fattispecie, secondo la dottrina, la realizzazione di più condotte tra quelle sopra elencate integra la commissione di un unico reato (MANTOVANI).

Passando alla disamina del secondo comma della norma in commento, invece, risponde del reato chi non abbia prodotto il materiale pornografico e lo commerci. E’, infatti, punito sia il commercio tradizionale dei supporti fisici che contengono il materiale, sia il commercio smaterializzato, vale a dire quello attuato a mezzo internet, telefono o radiotelevisione. Si tenga presente che la nozione di commercio richiama lo scopo di lucro dell’autore, che deve compiere l’attività rispetto a più utenti/clienti (FIANDACA-MUSCO), determinati o indeterminati che siano. L’attività deve, come anticipato, avere un minimo di organizzazione (MANTOVANI).

A mente del terzo comma della norma, poi, risponde del reato chi non abbia prodotto il materiale pornografico e lo distribuisca, divulghi, diffonda o pubblicizzi. Si tratta anche qui di norma a più fattispecie per cui si rende necessario esaminare le condotte tipiche sanzionate dalla norma quali quella della distribuzione che coincide con l’attività di chi si occupi, a scopo di lucro, di prelevare i supporti fisici su cui sono impresse le immagini pornografiche e di smistarli sul mercato a soggetti non fruitori che dovranno poi destinarli al cliente finale ovvero direttamnete ai fruitori (per esempio a club di pedofili). Secondo la dottrina, il concetto di ‘distribuzione’ non si presta a definire attività che riguardino supporti immateriali (MANTOVANI).

Accanto alla distribuzione di cui sopra, la norma sanziona anche la divulgazione, ovverosia la diffusione, senza scopo di lucro, delle immagini veicolate attraverso trasmissioni smaterializzate, visive ed uditive, grazie ai canali radiotelevisivi, telematici, cinematografici e telefonici, ad una pluralità di destinatari (MANTOVANI). Vi sono poi tra le condotte penalmente illecite la diffusione e cioè la messa in circolazione, a qualsiasi titolo, del materiale pornografico; si è sostenuto che la disposizione, in parte qua, presenti margini applicativi autonomi nulli (MANTOVANI) nonché la pubblicizzazione consistente nella diffusione di notizie, con o senza scopo di lucro, sull’esistenza e sulle caratteristiche del materiale pornografico, destinata ad una pluralità indeterminata di soggetti fruitori ovvero commercianti o distributori (secondo un meccanismo analogo a quello della pubblicità attuata attraverso mezzi di diffusione generalizzata di prodotti leciti) ovvero ad una pluralità determinata (per esempio, attraverso l’invio di dépliant o messaggi di posta elettronica a soggetti specifici).

Nella parte finale del terzo comma, la norma punisce inoltre la distribuzione o divulgazione di notizie o informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto. Sul punto, seppur con notevoli difficoltà ed ampio approccio critico alla tecnica normativa, la dottrina (MANTOVANI) ha individuato, quale terreno applicativo della disposizione, le fasi prodromiche al reperimento del materiale umano per la realizzazione del materiale pedopornografico o per la prostituzione. Sicché, il riferimento alla distribuzione o divulgazione finalizzate all’adescamento è da intendersi quale predisposizione di condotte dirette ai minori, per allettarli o ingannarli al fine di indurli alla prostituzione o alla pornografia, dovendosi ritenere che l’aggettivo «sessuale», ancorché collocato dopo «sfruttamento», si riferisce anche all’adescamento. Diversamente, il riferimento alla distribuzione o divulgazione finalizzate allo sfruttamento del minore è da intendersi quale predisposizione di condotte dirette a terzi non minori consistenti in richieste, inviti ed offerte di compensi affinché essi procurino minori per la pornografia o la prostituzione. La giurisprudenza ha ritenuto sussistente il reato anche nel caso in cui le notizie siano false e siano tese ad ottenere – e non a fornire – informazioni utili all’adescamento di minori, come nel caso di chi si presenti falsamente in una chat come un soggetto tredicenne interessato ad avere rapporti sessuali anche con minori (Cfr. Cass. Pen., sent. 5692/2013).

Infine, il quarto comma si pone come norma di chiusura che mira a punire ogni attività del mercato della pedopornografia (MANTOVANI). L’offerta del materiale pedopornografico deve essere seria e non millantatrice, cioè il soggetto agente deve avere la disponibilità del materiale che offre; mentre, con riferimento alla cessione del materiale pedopornografico essa può essere onerosa o gratuita ed anche temporanea.

Spostando l’attenzione al profilo soggettivo, si noti che tutte le fattispecie del primo comma sono punite solo a titolo di dolo. Più in particolare, il reclutamento è punito a titolo di dolo specifico implicito, costituito dalla coscienza e volontà di reclutare uno o più infradiciottenni al fine di coinvolgerli in spettacoli o esibizioni pornografiche (MANTOVANI; contra FIANDACA-MUSCO per cui questa, come le altre, è fattispecie a dolo generico). Tutte le altre condotte sono a dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà di indurre il minore a partecipare o realizzare esibizioni o spettacoli o di produrre materiale pornografico reale (MANTOVANI; FIANDACA-MUSCO; in giurisprudenza cfr. Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 35147/2011). Nella fruizione di esibizioni o spettacoli pornografici, secondo la dottrina, il reato è a dolo generico quanto alle esibizioni consistenti in atti sessuali ed è a dolo specifico allorquando si tratta nella rappresentazione di organi sessuali (MANTOVANI). Il commercio di materiale pornografico integra, invece, reato a dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di fare commercio del materiale pornografico realizzato con il coinvolgimento di minori, con scopo di lucro. Mentre, nella distribuzione, divulgazione e pubblicizzazione di materiale pornografico (co. 3 prima parte) – secondo la dottrina più accreditata (MANTOVANI) – il reato è a dolo generico, consistendo nella coscienza e volontà di compiere le azioni tipizzate rispetto a materiale che riguardi esibizioni sessuali di minori (a prescindere dalla consapevolezza della qualificazione come “pornografico”).

La parte finale della norma – relativa, come detto, alle condotte di distribuzione o divulgazione di notizie finalizzate all’adescamento/sfruttamento sessuale di minori – invece, sempre secondo quanto acclamato dalla dottrina, configurerebbe un reato a dolo specifico, consistente nella coscienza e volontà di distribuire o diffondere le notizie o informazioni di cui si è detto al fine di adescare direttamente minori ovvero di ottenerne la disponibilità, grazie all’opera di altri, per la prostituzione o la pornografia (MANTOVANI).

Infine, la condotta punita ai sensi del quarto comma configurerebbe un reato a dolo generico consistente nella coscienza e volontà dell’offerta o della cessione, gratuita o retribuita, del materiale pedopornografico, pur essendo possibile, ad avviso della dottrina, l’incriminazione anche a titolo di dolo eventuale, allorquando l’agente accetti il rischio, pur non avendone la certezza, che il materiale sia stato realizzato con la partecipazione di minori (MANTOVANI).

  1. Le Sezioni Unite n. 51185 del 31 maggio 2018

Come in parte anticipato nel paragrafo che precede, il tema relativo alla produzione volontaria di materiale pedopornagrafico da parte dei minori ha da sempre destato non pochi dubbi interpretativi in giurisprudenza. Sul punto giova precisare, sommariamente, come a seguito delle Sez. Un. n.13/2000, la prevalente giurisprudenza di legittimità ha ritenuto necessario, ai fini dell’integrazione del reato de quo, il concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto, escludendo dall’area applicativa della norma quelle ipotesi in cui la produzione pornografica fosse destinata a restare nella sfera privata dell’autore. Successivamente, la terza sezione penale della Corte di Cassazione – con ordinanza n. 10167/2018 – aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 600-ter comma 1 n. 1 c.p., con riferimento alla condotta di produzione del materiale pedopornografico, sia ancora necessario, stante la formulazione introdotta dalla L. 6.2.2006 n. 38, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale, come richiesto dalla sentenza a Sezioni Unite 31.5.2000 n. 13, confermata dalla giurisprudenza di questa sezione anche dopo la modifica normativa citata».

La Corte aveva evidenziato che, sulla base del principio affermato dalle Sezioni Unite n. 13 del 2000, dal momento che il delitto di pornografia minorile ha natura di reato di pericolo concreto, «il fatto di sfruttare minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni pornografiche o di produrre materiale pornografico, salvo l’eventuale ipotizzabilità di altri reati, non deve necessariamente essere caratterizzato dal fine di lucro o dall’impiego di una pluralità di minori, ma deve avere una consistenza tale (attraverso elementi sintomatici da accertare di volta in volta) da implicare il pericolo concreto di diffusione del materiale prodotto».

Tuttavia – si legge nell’ordinanza – a distanza di molti anni dalla citata decisione delle Sezioni Unite e alla luce delle osservazioni della dottrina «si sollecitano importanti interrogativi sulla correttezza dell’interpretazione delle Sezioni Unite su un sistema normativo in tema di pedopornografia mirante ad anticipare la repressione delle condotte già alla produzione del materiale, indipendentemente dall’uso personale o meno» dovendosi, così, «mettere in discussione l’accettazione dell’assioma delle Sezioni Unite del 2000 della necessità del pericolo di diffusione». All’udienza del 31 maggio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sent. 51815/2018 (Presidente Carcano, Relatore Andronio), in linea con le argomentazioni esposte nell’ordinanza, hanno fornito risposta negativa al quesito sopra riportato sovvertendo, di fatto, il precedente orientamento e ritenendo non più necessaria ai fini dell’integrazione della fattispecie, l’accertamento del pericolo di diffusione del suddetto materiale, in virtù delle nuove formulazioni della disposizione introdotte a parte dalla legge 6 febbraio 2006, n. 38. In estrema sintesi, la Corte ha collegato l’evoluzione esegetica a quella tecnologica, valorizzando l’odierna pervasiva diffusione di smartphone, tablet e computer dotati di fotocamere incorporata che hanno reso normali il collegamento ad internet e l’utilizzazione di programmi di condivisione quali social, cui è connaturata una potenzialità diffusiva di per sé lesiva dei beni giuridici tutelati. Così operando, la Corte, ha dunque sancito la natura di reato di danno della produzione di materiale pedopornografico, rivoluzionando la visione tradizionale, che vedeva la fattispecie come reato di pericolo concreto precisando, altresì, come il revirement circa il pericolo di diffusione non si risolve in un overruling in malam partem rilevante ex art. 7 CEDU, giacché la generalizzazione del pericolo di diffusione del materiale realizzato utilizzando minorenni era già individuato, nella giurisprudenza precedente, come uno dei parametri per valutare la concretezza del pericolo.

Ad ogni buon conto, al fine di scongiurare una eccessiva criminalizzazione in contrasto con le finalità proprie del diritto penale, la pronunzia in parola ha statuito che si debba qualificare abusiva la produzione che sia caratterizzata: – dalla posizione di supremazia dell’agente nei confronti del minore; oppure dall’utilizzo di minaccia, violenza, inganno nei confronti del minore o, ancora, da un fine commerciale, ed, infine, in presenza di un coinvolgimento di minori di età inferiore a quella del consenso sessuale. Al contrario, qualora le immagini o i video abbiano per oggetto la vita privata sessuale nell’ambito di un rapporto che, valutate le circostanze del caso, non sia caratterizzato da condizionamenti derivanti dalla posizione dell’autore, ove la concessione della propria immagine sia frutto di una libera scelta – come avviene, per esempio, nell’ambito di una relazione paritaria tra minorenni ultraquattordicenni – e le immagini siano destinate ad un uso strettamente privato, dovrà essere esclusa la ricorrenza di quella “utilizzazione” che costituisce il presupposto del reato.

Appare evidente come la Corte, con un obiter dictum, abbia di fatto avallato la liceità del c.d. sexting primario, ovvero della creazione di materiali pedopornografici col consenso del (o della) minore con la diretta conseguenza che non sussisterebbe infatti ‘utilizzazione’ di questi – e quindi la condotta richiesta dal co.1 dell’art. 600-ter c.p. – laddove i materiali raffigurino un minore che abbia raggiunto l’età del consenso sessuale (quattordici o sedici anni), siano destinati ad un uso strettamente privato e non conseguano ad alcun condizionamento, essendo bensì, al contrario, frutto di una libera scelta del minore ponendo al centro della questione non già il consenso del minore quanto piuttosto il concetto di “non utilizzazione” del minore steso, rilevandosi, questo, come essenziale (BIANCHI). Logica conseguenza della suddetta pronuncia, è la difficoltà interpretativa dei richiami interni all’art. 600-ter c.p. I capoversi di quest’ultimo – che come visto puniscono il commercio del materiale pedopornografico, la sua divulgazione, cessione etc. – fanno infatti riferimento al materiale pornografico di cui al co.1, e dunque alle immagini o video prodotti utilizzando minori di anni diciotto.

Di talché, laddove si escluda che l’autoproduzione consensuale di materiali pedopornografici integri la fattispecie di cui al primo comma, bisognerebbe di conseguenza rilevare l’irrilevanza penale (quantomeno nell’ambito di tale disposizione) del commercio, della divulgazione, etc., di detti materiali. In un caso di sexting, pertanto, l’originaria liceità della produzione del materiale determinerebbe effetti a cascata su tutte le altre fattispecie susseguenti (c.d. sexting secondario), rendendole inapplicabili e lasciando un vuoto normativo, in parte colmato dall’introduzione del reato di cui all’art. 612-ter c.p. e in parte colmato da un arresto giurisprudenziale recente per il quale l’illecita divulgazione di immagini e video di carattere sessuale che il minore si sia autoprodotto continuerebbe, pertanto, a integrare la fattispecie ex art. 600-ter co. 3 c.p., senza che sia necessaria la sussistenza del reato presupposto di produzione ex co. 1 (Cfr. Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 5522/2020).

  1. Gli Ermellini mettono in discussione l’obiter dictum delle Sezioni Unite del 2018: l’ordinanza n. 25334 del 22 aprile 2021

Nonostante la copiosa giurisprudenza in materia, l’annosa questione relativa alla rilevanza penale della pedopornografia domestica continua, ancora oggi, ad assumere una ingente rilevanza all’interno del panorama giurisprudenziale. A testimoniarlo è la recentissima ordinanza n. 25334/2021 con cui la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa al se il consenso del minore alla creazione di fotografie o video intimi che lo ritraggano (c.d. sexting), ad esclusivo uso delle persone coinvolte e nel contesto di una relazione affettiva, escluda il reato di produzione di materiale pedopornografico (art. 600-ter, co. 1, n. 1).

In particolare, la vicenda prende le mosse dalla produzione consensuale di immagini e video di alcuni rapporti sessuali intercorrente tra un trentenne e una minore ultraquattordicenne, uniti in una relazione sentimentale. Conseguentemente alla produzione dei suddetti video/immagini, il giovane trentenne li inoltra ad un altro soggetto, con cui la giovane intratteneva una nuova relazione. La ragazza presentava denuncia e, in fase di udienza preliminare (tre anni dopo), rappresentava in maniera parzialmente differente l’accaduto, ritenendo che non solo la produzione ma anche la diffusione del materiale pedopornografico sarebbero avvenute previo il suo consenso. La ritrattazione della giovane ragazza veniva considerata inattendibile dalla Corte d’Appello la quale riteneva, in ogni caso, il suo consenso priva di alcuna validità stante la sua minore età. L’imputato, con cui nel frattempo la ragazza intrattiene nuovamente una relazione sentimentale, veniva dunque condannato per i reati di produzione e divulgazione di materiali pedopornografici ai sensi e per gli effetti degli artt. 600-ter, co. 1, n. 1, e co. 3).

Ricorreva per Cassazione la difesa dell’imputato, contestando, da un lato, l’insussistenza del presupposto del reato di cui all’art. 600-ter c.p., atteso come nella realizzazione del materiale non vi fosse stata alcuna “utilizzazione” della minore, la quale anzi richiedeva di essere ripresa nel compimento degli atti sessuali che volontariamente poneva in essere. In via gradata, il difensore chiedeva la derubricazione del reato contestato nella meno grave fattispecie di cessione di materiale pedopornografico, ex art. 600-ter, co. 4, c.p., rilevando che la cessione delle immagini fosse stata esclusivamente bilaterale (giacché inoltrato, nella specie, dall’imputato all’ormai ex fidanzato tramite messaggio privato).

Ebbene, per come si evince dalla lettura dell’ordinanza in commento, la Terza Sezione della Cassazione – favorevole alla valutazione effettuata dai giudici di merito, che si discosta tuttavia dagli orientamenti espressi dalla stessa Cassazione tra il 2018 e il 2020 riguardo al sexting minorile – ritiene di mettere al centro dell’ordinanza di remissione due questioni: l’identificazione del bene giuridico protetto dalla normativa sulla pornografia minorile; e la validità del consenso del minore alla realizzazione di materiali pedopornografici.

Con riferimento alla prima delle anzidette questioni, la Corte ritiene che il bene protetto non sia solamente l’autonomia sessuale dei minori, individuata nell’obiter dictum delle Sezioni Unite 2018, quanto l’interesse del minore alla tutela della propria intimità e, più in generale, il contrasto alla diffusione dell’interesse sessuale verso i minori. Detto in altri termini, i giudici si sono interrogati sulla necessità di dare prevalenza alla libertà di un minore di realizzare immagini della propria vita sessuale oppure alla tutela dello stesso minore da future ed eventuali diffusioni illecite di tali materiali o, ancora, all’interesse pubblico atto a contrastare la realizzazione e diffusione di materiali pedopornografici, qualunque ne sia la fonte. Per ciò che riguarda, invece, la seconda delle anzidette questioni, la Corte di legittimità, pone il problema concernente la validità del consenso del minore di anni diciotto alla realizzazione di materiali pedopornografici ritenendo, in particolare, come le Sezioni Unite nel 2018 mancarono nell’approfondire il suddetto tema pur accettando, implicitamente, che il minore ultraquattordicenne potesse validamente acconsentire alla produzione di immagini o video, qualora essa si inserisca in una relazione affettiva, non sia condizionata e il minore non venga pertanto “utilizzato”. In verità, per come si evince dal testo dell’ordinanza in commento, agli anzidetti quesisti, l’ordinanza, dà in parte già una risposta ritenendo, da un lato, di dover mettere in dubbio la capacità del minore di consentire validamente alla riproduzione di documenti della propria vita sessuale per un uso domestico e dall’altro escludendo che il minore possa prestare un valido consenso alla divulgazione di video e/o immagini ritraenti la propria vita sessuale e ciò anche e soprattutto in virtù di una relazione affettiva, quella tra un minore e un soggetto adulto, che difficilmente può definirsi come paritaria (Cfr.Cass. Pen, Sez. III penale, 18 aprile 2019 (dep. 18 giugno 2019), n. 26862; Cass. Pen., Sez. III penale, sent. 10 settembre 2020 (dep. 9 novembre 2020), n. 31192). E, perciò, sulla scorta delle anzidette argomentazioni, la Corte rimette la questione alle Sezioni Unite ponendo il seguente quesito: “Se il reato di cui all’art. 600 ter, comma 1, n. 1, c.p., risulti escluso nell’ipotesi in cui il materiale pedopornografico sia prodotto, ad esclusivo uso privato delle persone coinvolte, con il consenso di persona minore, che abbia compiuto gli anni quattordici, in relazione ad atti sessuali compiuti nel contesto di una relazione affettiva con persona minorenne che abbia la capacità di prestare un valido consenso agli atti sessuali, ovvero con persona maggiorenne”.

  1. L’informazione provvisoria delle Sezioni Unite del 28 ottobre 2021

In attesa del deposito delle motivazioni, da quanto si apprende dall’informazione provvisoria diffusa dalla Suprema Corte, all’esito della udienza pubblica del 28 ottobre trascorso, su conclusioni conforme del Procuratore generale, ha ritenuto che «Nel rispetto della volontà individuale del minore con specifico riguardo alla sfera di autonomia sessuale, il valido consenso che lo stesso può esprimere agli atti sessuali con persona minorenne o maggiorenne, ai sensi dell’art. 609 quater cod. pen., si estende alle relative riprese, sicché è da escludere, in tali ipotesi, la configurazione del reato di produzione di materiale pornografico, sempre che le immagini o i video realizzati siano frutto di una libera scelta e siano destinati all’uso esclusivo dei partecipi all’atto. Al di fuori della ipotesi descritta, la destinazione delle immagini alla diffusione può integrare il reato di cui all’art. 600 ter, primo comma, cod. pen., ove sia stata deliberata sin dal momento della produzione del materiale pedopornografico. Viceversa, le autonome fattispecie di cui al terzo e al quarto comma dell’art. 600 ter ricorrono allorché una qualsiasi delle condotte di diffusione o offerta in esse previste sia posta in essere successivamente ed autonomamente rispetto alla ripresa legittimamente consentita ed al di fuori dei limiti sopra indicati».

Autore: Avv. Prof. Leonardo Ercoli