Armi : Art. 699 cp e Art. 4 L 110/75 discrimine

22 Ott

Armi : Art. 699 cp e Art. 4 L 110/75 discrimine

Secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, Sez. 1, n. 9 del 10/01/1992, Ceccherini, Rv. 191120-01), il discrimine tra le contravvenzioni rispettivamente previste dagli artt. 699 cod. pen. e 4, secondo e terzo comma, legge 110 del 1975 risiede nel fatto che la prima fattispecie ha ad oggetto le armi c.d. proprie, la cui destinazione naturale è l’offesa alla persona (e di cui è ammesso il porto solo previa licenza, ove concedibile), mentre la seconda ha ad oggetto le armi c.d. improprie, ossia gli altri strumenti da punta o da taglio, e gli altri oggetti utilizzabili anche per l’offesa alla persona ma a ciò non ordinariamente deputati (di cui è ammesso il porto solo in presenza di giustificato motivo).La distinzione risiede non tanto nelle caratteristiche costruttive e strutturali dei singoli strumenti e nella idoneità all’offesa alla persona, spesso comuni ad entrambe le categorie, quanto nella individuazione, tra tutte le possibili destinazioni, di quella principale corrispondente all’uso normale, da accertare con specifico riferimento a quello che rappresenta l’impiego naturale dei singoli strumenti in un determinato ambiente sociale alla stregua dei costumi, delle usanze e delle esperienze affermatisi in un dato momento storico (Sez. 1, n. 37208 del 14/11/2013, dep. 2014, Carnicelli, Rv. 260776-01). Le caratteristiche suddette vengono, comunque, in ausilio, essendo normalmente qualificabili armi proprie il coltello «a scatto» (di cui è vietato il porto in modo assoluto, non essendo ammessa licenza da parte delle leggi di pubblica sicurezza: Sez. 1, n. 45548 del 23/09/2015, Marchesi, Rv. 265278-01; Sez. F, n. 33604 del 30/08/2012, Luciani, Rv. 253427-01; Sez. 1, n. 16785 del 07/04/2010, Pierantoni, Rv. 246947-01), ovvero l’arma caratterizzata da punta aguzza e doppio filo di lama (Sez. 1, n. 10979 del 03/12/2014, dep. 2015, Campo, Rv. 262867-01), generalmente definita pugnale (a meno che non abbia mero uso sportivo: Sez. 3, n. 4220 del 21/12/2010, dep. 2011, Gueye, Rv. 249315-01). Ciò posto, è proprio in relazione all’esatta identificazione di ciascuna delle armi «bianche» sequestrate, e alla conseguente loro (eventualmente distinta) riconduzione all’una o all’altra categoria, che la motivazione della sentenza impugnata si rivela carente; né essa risulta utilmente integrabile con quella di primo grado, parimenti silente sul punto. La qualificazione degli oggetti in imputazione come armi proprie, operata per relationem alle fotografie (queste ultime non meglio illustrate) e al contenuto (genericamente richiamato) del verbale di sequestro, è assertiva, pur a fronte delle doglianze specifiche mosse dagli appellanti al riguardo. I profili discriminanti – ossia la destinazione naturale di ciascun arma, sulla base delle caratteristiche costruttive e del loro impiego socialmente prevedibile – non sono esaminati, né con riferimento agli asseriti pugnali (non è precisato se siano a doppio filo e acuminati, e non si dibatte dell’eventuale loro riferibilità all’esercizio dell’arte marziale), né ai coltelli a serramanico (ossia pieghevoli), che non è detto siano a scatto (o abbiano le suddette caratteristiche dell’arma propria), e neppure rispetto all’ascia (espressamente definita, anzi, come destinata all’esercizio dell’arte marziale, e quindi ad un uso non intrinsecamente offensivo).

Sez. PRIMAPENALE,Sentenza n.7372 del 18/02/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:7372PEN),udienza del 30/01/2019,Presidente IASILLO ADRIANO Relatore CENTOFANTI FRANCESCO

22 Ott

Penale : Rapina Impropria

Sulla mancata qualificazione dei fatti come tentato furto, è manifestamente infondata, essendo, nel caso in esame, stata esercitata violenza contro l’agente delle forze dell’ordine, al fine di conseguire l’impunità.Questa Corte (Sez. 7, n. 34056 del 29/05/2018, Rv. 273617; Sez. 2, n. 43764 del 4/10/2013, Rv. 257310), con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ha affermato che, in tema di rapina impropria, la violenza o la minaccia possono realizzarsi anche in luogo diverso da quello della sottrazione della cosa e in pregiudizio di persona diversa dal derubato, sicché, per la configurazione del reato, non è richiesta la contestualità temporale tra sottrazione e uso della violenza o minaccia, essendo sufficiente che tra le due diverse attività intercorra un arco temporale tale da non interrompere l’unitarietà dell’azione, volta ad impedire al derubato di tornare in possesso delle cose sottratte o di assicurare al colpevole l’impunità    Sez. SECONDA PENALE,Sentenza n.1021110211del 08/03/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:10211PEN)2019,udienza del 16/11/2018,Presidente DE CRESCIENZO UGO Relatore PACILLI GIUSEPPINA ANNA ROSARIA 

17 Ott

Giurisprudenza: Art. 110 629 cp Concorso in Estorsione

Ai fini dell’integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione, «è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita; ne consegue che anche l’intermediario, nelle trattative per la determinazione della somma estorta, risponde del reato di concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l’interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana» (così Sez. 2, n. 37896 del 20/07/2017, Benestare, Rv. 270723; in senso conforme cfr., ad es., Sez. 2, n. 6824 del 18/01/2017, Bonapitacola, Rv. 269117; Sez. 5, n. 13520 del 21/01/2015, Quatrosi, Rv. 262896; Sez. 5, n. 40677 del 07/06/2012, Petruolo, Rv. 253714; da ultimo v. Sez. 2, n. 21315 del 04/02/2020, Crispo, non mass.).   Sez. SECONDA PENALE, Sentenza n.4865 del 08/02/2021 (ECLI:IT:CASS:2021:4865PEN), udienza del 19/01/2021, Presidente RAGO GEPPINO  Relatore MESSINI D’AGOSTINI PIERO 

17 Ott

Giurisprudenza: Art. 474 Marchio di larghissimo uso

Ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’art. 474 cod. pen, allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle relative società produttrici, come nella specie, non è richiesta la prova della sua registrazione, gravando in tal caso l’onere di provare la insussistenza dei presupposti per la sua protezione su chi tale insussistenza deduce (Sez. 5, n. 5215 del 24/10/2013 ,dep. 2014, Ngom, Rv. 258673; Sez. 2, n. 36139 del 19/07/2017, Rv. 271140).   Sez. SETTIMA PENALE, Ordinanza n.4242 del 03/02/2021 (ECLI:IT:CASS:2021:4242PEN), udienza del 01/12/2020, Presidente VERGA GIOVANNA  Relatore DE SANTIS ANNA MARIA 

17 Ott

Codice Penale : Dichiara di aver smarrito la patente per ottenere duplicato è reato

Colpevole dei delitti di cui agli artt. 483 (per avere falsamente dichiarato di avere smarrito la propria patente di guida estera, che gli era stata, invece, ritirata in attesa che si sottoponesse a perizia psico-medica) e 48, 479 (perché, presentando un’istanza di conversione della patente di guida, autocertificava di averla smarrita così traendo in errore il funzionario della Prefettura che rilasciava il permesso di guida sul falso presupposto) cod. pen., irrogando la pena indicata in dispositivo. Questa Corte ha già avuto modo di precisare (Sez. 5, n. 9950 del 06/12/2017, dep. 05/03/2018, Marangoni, Rv. 272710) che configura il delitto di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. la falsa attestazione, nell’atto del pubblico ufficiale indotto in errore, di un presupposto di fatto, giuridicamente rilevante ai fini del rilascio del documento abilitativo richiesto dal privato.   Sez. SETTIMAPENALE,Ordinanza n.7510 del 19/02/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:7510PEN),udienza del 30/01/2019,Presidente BRUNO PAOLO ANTONIO Relatore SCARLINI ENRICO VITTORIO STANISLAO 

17 Ott

Codice della Strada: Art. 186 cds Sintomatico

Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 186 del d. Igs. 30 aprile 1992 n. 285, per accertare lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo non è indispensabile l’utilizzazione degli strumenti tecnici di accertamento previsti dal codice della strada e dal regolamento (etilometro), ben potendo il giudice di merito – in un sistema che non prevede l’utilizzazione di prove legali – ricavare l’esistenza di tale stato da elementi sintomatici quali l’alito vinoso, l’eloquio sconnesso, l’andatura barcollante, le modalità di guida o altre circostanze che possano far fondatamente presumere l’esistenza dello stato indicato (v., ex plurimis, Sez. 4, n. 36922 del 13/07/2005, Compagnucci, Rv. 232232; Sez. F, n. 36533 del 28/08/2008, Cossu, Rv. 242045; Sez. 4, n. 45122 del 06/11/2008, Corzani, Rv. 241764; Sez. 4, n. 43017 del 12/10/2011, P.G. in proc. Rizzo, Rv. 251004) Sez. QUARTAPENALE,Sentenza n.7524 del 19/02/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:7524PEN),udienza del 16/11/2018,Presidente DI SALVO EMANUELE Relatore CENCI DANIELE 

17 Ott

Codice della strada: Art. 189 cds Omissione di Soccorso

L’obbligo di fermarsi e di prestare l’ assistenza occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona insorge, a norma dell’art. 189, comma 1, cod. strada, in presenza di un incidente comunque ricollegabile al comportamento dell’interessato. Il presupposto dell’obbligo in esame è dunque costituito dalla mera ricollegabilità dell’incidente al comportamento dell’utente della strada:concetto molto più ampio di quello di responsabilità. L’obbligo di fermarsi e di prestare assistenza non insorge dunque soltanto allorché l’interessato abbia cagionato l’incidente o abbia comunque una responsabilità nella causazione di quest’ultimo ma anche quando il soggetto abbia comunque esplicato un qualunque ruolo nella cinematica del sinistro, anche senza alcuna responsabilità. Il reato di fuga è infatti un reato omissivo di pericolo, in quanto la legge impone all’ agente di fermarsi in presenza di un incidente, da lui percepito, che sia in qualunque modo riconducibile al suo comportamento e che sia concretamente idoneo a produrre effetti lesivi ( Cass., Sez. 4, n. 3982 del 28-1-2003) o da cui sia in concreto derivato un danno alle persone ( Cass., Sez. 4, n. 20235 del 14- 6-2006, Mischiatti; Sez. 4, n. 5454 del 9-5-2000; Sez. 4, n. 34621 del 21-8- 2003).Sez. QUARTAPENALE,Sentenza n.7527 del 19/02/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:7527PEN),udienza del 05/12/2018,Presidente IZZO FAUSTO Relatore DI SALVO EMANUELE 

17 Ott

Giurisprudenza : Art. 612 cp Minaccia

E’ jus receptum, infatti, che, nel reato di minaccia, elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall’autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest’ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante, invece, l’indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente (Sez. 5, n. 45502 del 22/04/2014, Scognamillo, Rv. 261678; Sez. 5, n. 21601 del 12/05/2010, Pmt. in proc. Pagano, Rv. 247762; Sez. 5, n. 31693 del 07/06/2001, Tretter, Rv. 219851).   Sez. QUINTA PENALE, Sentenza n.7561 del 19/02/2019 (ECLI:IT:CASS:2019:7561PEN),udienza del 13/12/2018,Presidente PEZZULLO ROSA  Relatore SCORDAMAGLIA IRENE 

16 Ott

Condannata la madre che pubblica video e foto della figlia minore sui social network senza il consenso del padre.

La Redazione
Trib. Trani, ord., 30 agosto 2021

Un padre proponeva reclamo nei confronti del provvedimento che dichiarava inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., finalizzato ad ottenere la condanna della ex moglie alla rimozione dai social network di immagini e video della figlia minore, in quanto pubblicati senza il suo consenso.

Il ricorso è fondato. Il Tribunale di Trani, infatti, afferma che «i requisiti del fumus e del periculum vengono valutati anche tenendo conto di elementi quali l’a-territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile». Secondo i Giudici la madre, postando i video della figlia minore su Tik Tok ha violato diverse norme comunitarie, internazionali e interne: l’art. 8 Reg. n. 679/2016, infatti, considera l’immagine fotografica dei figli come un dato personale, ai sensi dell’art. 4, lett. a), b) e c) del c.d. Codice della Privacy (d.lgs n. 196/2003) e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata; nel caso di minori di sedici anni, inoltre, occorre il consenso alla pubblicazione da parte di entrambi i genitori e di comune accordo, «senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore» (art. 97 l. n. 633/41).

Nel caso di specie, manca del tutto il consenso del padre alla pubblicazione dei video: l’accesso al profilo social della moglie, infatti, non può considerarsi come accettazione alla pubblicazione delle foto della minore, così come non rileva l’intervenuta transazione tra i coniugi, non contenente alcun riferimento alla pubblicazione di immagini della figlia sui social.

Per il Tribunale, inoltre, essendo comprovato che la minore all’epoca della pubblicazione dei video avesse nove anni, ricorda che «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati. Dunque, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network, sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente» (Trib. Mantova, 19 settembre 2017).

Per questi motivi, il Tribunale di Trani accoglie il reclamo e ordina alla madre:

di rimuovere le immagini, i dati e le informazioni che si riferiscono alla figlia e che sono inseriti nei social network;
dalla comunicazione del provvedimento, di diffondere immagini, informazioni e dati che si riferiscono alla minore senza il consenso espresso anche del padre;
di versare 50 euro sul conto della minore per ogni giorno di ritardo nell’eseguire l’ordine di rimozione.
Trib. Trani, ord., 30 agosto 2021
Presidente Binetti – Relatore Guerra

Svolgimento del procedimento

Con ricorso depositato il 6.7.2021 Il padre ha proposto reclamo avverso l’ordinanza n. 1544/2021 del giudice monocratico del Tribunale di Trani, depositata il 18.6.2021, e comunicata il 22.6.2021, con cui è stato dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 700 c.p.c., proposto dall’odierno istante per la condanna di Caia, coniuge da cui è legalmente separato a partire dal 2019, alla rimozione dai social network ed inibizione di pubblicazione di immagini e video della figlia minore ……, nata il …..2011, in quanto pubblicati senza il consenso del padre. In particolare, il Tribunale ha fondato la decisione di inammissibilità sulla mancata indicazione del giudizio di merito che il ricorrente in primo grado avrebbe intrapreso in caso di accoglimento della domanda cautelare.

A sostegno del gravame, il reclamante ha rilevato che l’ordinanza impugnata sarebbe fondata sulla non corretta interpretazione della disciplina del provvedimento cautelare atipico e del contenuto del ricorso, da cui era possibile evincere l’instauranda azione di merito. Tutto ciò premesso, ha chiesto la revoca dell’ordinanza reclamata ed il conseguente accoglimento della domanda di cautelare, il tutto con vittoria delle spese della doppia fase processuale.

La reclamata, nonostante la regolare notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione di udienza, avvenuta il 26.7.2021 all’indirizzo pec del procuratore costituito nella fase cautelare, non ha inteso partecipare al gravame.

All’udienza del 24.8.2021 il Collegio, udita la discussione orale del procuratore di parte reclamante, si è riservato per la decisione.

Motivi della decisione

Il proposto reclamo può trovare accoglimento per le ragioni di seguito indicate.

In via generale, la necessità della formulazione, nel ricorso cautelare, dell’eventuale azione di merito è stata desunta dalla giurisprudenza in via di interpretazione teleologica al fine di

consentire al Giudice adito il controllo della propria competenza, la verifica del rapporto di strumentalità fra la tutela cautelare richiesta e l’azione di cognizione i cui effetti si intende anticipare o assicurare provvisoriamente ed infine la calibrazione dell’istruttoria in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto.

A più riprese la giurisprudenza di merito ha affermato che “La mancata indicazione nel ricorso cautelare delle conclusioni di merito comporta l’inammissibilità dello stesso, sempre che dal tenore dello stesso non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito; in altre parole, il ricorso contenente una domanda cautelare proposta prima dell’inizio della causa di merito deve contenere l’esatta indicazione di quest’ultima o, almeno, deve consentirne l’individuazione in modo certo, in quanto solo tale indicazione consente di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta” (si veda, Trib. Roma, 16.4.2020; Trib. Lodi, 23.8.2019; Trib. Torino, 15.1.2018).

Tale orientamento è stato fatto proprio dal Giudice della cautela il quale ha fondato la propria decisione sulla scorta della mancata indicazione, neppure di massima, da parte del ricorrente dell’eventuale instauranda azione di merito.

Non può però prescindersi dal dato sistematico in quanto alcuna norma positiva sanziona con la nullità o l’inammissibilità l’omessa indicazione del contenuto della causa di merito futura.

Conseguentemente, in distonia con il suindicato orientamento, deve ritenersi che la sola mancata indicazione nel ricorso ex art. 700 c.p.c. delle conclusioni di merito non potrebbe comportare l’inammissibilità dello stesso se dal suo tenore complessivo fosse possibile dedurre il contenuto del futuro giudizio.

In altri termini, poiché tale elemento costituisce semplicemente un requisito di carattere teleologico, ricavato sistematicamente in funzione dello scopo dell’atto, è evidente che non occorre il rispetto di formule solenni e sacramentali, e neppure l’esposizione di precise conclusioni di merito (che in molti casi risulterà addirittura impossibile formulare); è invece sufficiente, nella prospettiva del conseguimento dello scopo dell’atto (art. 156, commi 2 e 3 c.p.c.) che dal ricorso sia possibile desumere con sufficiente precisione il tenore della domanda di merito a cui la tutela cautelare invocata risulta preordinata.

Tale conclusione tiene conto delle peculiarità della fattispecie in esame in cui vi è totale coincidenza fra il tenore della richiesta cautelare e il contenuto della pronuncia di merito futura (condanna alla rimozione dei video e foto pubblicati sui profili social della madre e inibizione, per il futuro, alla pubblicazione di ulteriori senza il consenso del padre) che è lecito evincere dall’intero ricorso, letto secondo buona fede e ragionevolezza. Appare, infatti, evidente che il ricorrente mira ad ottenere ora, urgentemente e in sede cautelare, quella stessa pronuncia che potrebbe richiedere poi in sede di ordinaria cognizione.

Inoltre, tale interpretazione, più attenta all’aspetto sostanziale, è coerente con la nuova disciplina dei provvedimenti cautelari atipici a contenuto anticipatorio, introdotta dal D.L. n.

35/2005 e caratterizzata dalla forte attenuazione per i provvedimenti anticipatori del c.d. vincolo di strumentalità, con conseguente non necessità di instaurazione del giudizio di merito.

Il referente normativo della natura eventuale della fase a cognizione piena è rappresentato dal sesto comma dell’art. 669 octies c.p.c., che esclude l’applicabilità dell’art. 669 novies primo comma c.p.c. (inefficacia del provvedimento cautelare a seguito di mancata instaurazione del giudizio di merito entro il termine perentorio fissato dal giudice della cautela e comunque oltre i sessanta giorni) per i provvedimenti di urgenza emessi ai sensi dell’art. 700 e agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito”.

Per tali ragioni, dunque, il reclamo deve essere accolto con riforma integrale del provvedimento impugnato.

Passando all’esame del merito, la domanda proposta in primo grado può trovare accoglimento, sussistendo entrambi i requisiti per la concessione della tutela cautelare. Appare opportuno ribadire, come già precisato da questo Tribunale in analoga fattispecie, che “i requisiti del fumus e del periculum vengono valutati anche tenendo conto di elementi quali l’a – territorialità della rete, che consente agli utenti di entrare in contatto ovunque, con chiunque, spesso anche attraverso immagini e conversazioni simultanee, nonché la possibilità, insita nello strumento, di condividere dati con un pubblico indeterminato, per un tempo non circoscrivibile” (Trib. Trani, ord. 7.6.2021). Il fatto storico è incontestato, in quanto la stessa Caia, nella comparsa di costituzione e risposta in primo grado (depositata il 4.6.2021) non ha negato di aver postato i video della minore ……. sul social network Tiktok a partire dal maggio 2020. Tale comportamento integra violazione di plurime norme, nazionali, comunitarie ed internazionali:art. 10 c.c. (concernente la tutela dell’immagine), artt. 1 e 16 I co. della Convenzione di New York del 20.1111989 ratificata dall’Italia con L. n. 176/1991 (in particolare, l’art. 1 prevede l’applicazione delle norme della convenzione ai minori di anni diciotto mentre l’art. 16 stabilisce che “1. Nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione. 2. Il fanciullo ha diritto alla protezione della legge

contro tali interferenze o tali affronti”); art. 8 Reg. 679 /2016 (entrato in vigore il 25.5.2018) che considera l’ immagine fotografica dei figli dato personale, ai sensi del c.d. Codice della Privacy (e specificamente dell’art. 4, lett. a), b) c) D.Lgs n. 196/20039 e la sua diffusione integra un’interferenza nella vita privata, sicchè nel caso di minori di anni sedici, è necessario che il consenso alla pubblicazione di tali dati sia prestato dai genitori, in vece dei propri figli, concordemente fra loro e senza arrecare pregiudizio all’onore, al decoro e alla reputazione dell’immagine del minore (art. 97 L. n. 633/41). In tale prospettiva, il legislatore italiano, all’art. 2 quinquies del D.Lgs. 101/2018 ha fissato il limite di età da applicare in Italia a 14 anni.

Nel caso di specie non vi è prova del consenso del padre alla pubblicazione di tali video. Non può trovare accoglimento la tesi difensiva della … secondo cui i Tizio era a conoscenza della

pubblicazione degli stessi avendo egli accesso al profilo della moglie. La possibilità di visionare un profilo social non equivale ad accettazione della pubblicazione di video e foto ritraenti la figlia minore. La proposizione del ricorso cautelare, seppur a distanza di qualche mese dalla pubblicazione, è espressione del dissenso, i.e. mancato consenso, del genitore. Né può tener luogo del consenso l’intervenuta transazione del 22.4.2021 regolante aspetti

patrimoniali dei rapporti familiari e non contenente alcun riferimento alla pubblicazione di foto e video sui social da parte dei due genitori.

È inoltre incontestato che la minore … al momento della pubblicazione dei video e foto aveva circa nove anni.

Oltre al prospettato fumus boni iuris sussiste, altresì, il periculum in mora, in quanto, come precisato dalla giurisprudenza di merito, “l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che taggano le foto on-line dei minori e, con procedimenti di fotomontaggio, ne traggono materiale pedopornografico da far circolare fra gli interessati. Dunque, il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network sicché l’ordine di inibitoria e di rimozione va impartito immediatamente” (cfr. Trib. Mantova, 19.9.2017). Alla luce delle suesposte considerazioni, dunque, il provvedimento gravato deve essere integralmente riformato con conseguente accoglimento della domanda cautelare e condanna di Caia alla rimozione dai propri profili social delle immagini relative alla minore … … ed alla contestuale inibitoria dalla futura diffusione di tali immagini, in assenza del consenso di entrambi i genitori.

Infine, merita accoglimento la richiesta di condanna ex art. 614 bis c.p.c., tenuto conto della necessità, nella vicenda in esame, di tutelare l’integrità della minore e l’interesse ad evitare la diffusione delle proprie immagini a mezzo web nonché, in quanto collegato a questo, dell’interesse del genitore a cui spetta pretendere il rispetto degli obblighi sopra sanciti.

L’accoglimento del reclamo impone una nuova statuizione sulle spese da porsi a carico della reclamata soccombente e da liquidarsi in dispositivo, secondo lo scaglione valoriale, previsto dal D.M. n. 55/2014 e s.m.i. per le controversie di non particolare complessità (da ? 5.200,00 a 26.000,00) e con esclusione della fase istruttoria, tenuto conto della natura documentale del procedimento.

P.Q.M.

Il Tribunale, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando sul reclamo avverso

l’ordinanza del giudice monocratico del Tribunale di Trani n. 1544/2021 depositata il 18.6.2021 e comunicata il 22.6.2021 nel procedimento iscritto al n. 3445/2021 R.G.A.C.C., proposto dal padre con ricorso depositato il 6.7.2021 così provvede:

  1. accoglie il reclamo e, per l’effetto, riforma integralmente il provvedimento impugnato;

sempre per l’effetto, in accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., dispone che … provveda, entro il 10.9.2021, alla rimozione di immagini, informazioni, dati relativi alla minore…, inseriti su social networks, comunque denominati;

  1. inibisce dal momento della comunicazione del presente provvedimento a Caia la diffusione

sui social networks, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo alla minore … …, in assenza dell’espresso consenso di Il padre;

  1. determina ex art. 614-bis c.p.c., nella misura di Euro 50,00, la somma dovuta da Caia, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’ordine di rimozione nonché per ogni episodio di violazione dell’inibitoria, in favore della minore, da versarsi su conto corrente intestato alla medesima;
  2. condanna Caia a rifondere al padre le spese della fase cautelare e di quella del reclamo, che si liquidano in complessivi Euro 250,00 per esborsi ed Euro 1.500,00 per onorari, oltre rimborso forfettario del 15% delle spese generali, CPA e IVA, come per legge.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito.

Così deciso in Trani il 30 agosto 2021.

Fonte Diritto e Giustizia

16 Ott

Reato lasciare i cani in auto per ore

di Annamaria Villafrate


La Cassazione afferma che per integrare il reato di abbandono non occorre il dolo e la sofferenza dell’animale si desume dalla incompatibilità della detenzione con la sua natura

Ai fini della configurazione del reato di abbandono non occorre che vi sia la prova delle sofferenze e che le stesse siano inferte volontariamente. La sofferenza arrecata all’animale è desumibile dal contesto. Va quindi confermata la condanna alla pena dell’ammenda irrogata ai due imputati, responsabili di aver lasciato due cani di grossa taglia all’interno dell’auto la notte di Capodanno senza acqua. Questo quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 36713/2021

La vicenda processuale
In primo grado due imputati vengono condannati per il reato di abbandono di animali contemplato dall’art. 727 c.p per aver lasciato per più di tre ore, nella notte di San Silvestro del 2017, due cani di grossa taglia all’interno di un’auto, parcheggiata sulla via pubblica, senza acqua. Condizione che ha arrecato ai due animali grosse sofferenze anche per l’impossibilità degli stessi di muoversi adeguatamente.

Senza la prova della sofferenza dell’animale non c’è reato

I due imputati, in disaccordo con l’esito del giudizio di primo grado, impugnano la sentenza innanzi alla Corte di Cassazione sollevando un unico motivo, con il quale fanno presente che l’art. 727 c.p punisce chi detiene gli animali in condizioni incompatibili con la loro natura quando la detenzione produce gravi sofferenze.

In relazione al reato contestato i due imputanti evidenziano che la motivazione della sentenza di condanna difetta nel punto in cui dovrebbe dimostrare il nesso di causa tra la condotta e le gravi sofferenze che i due animali avrebbero subito. Non basta la mera condizione di detenzione per dedurre che i due animali abbiano patito a causa della assenza di acqua, dello spazio ridotto in cui muoversi e delle carenti protezioni dal freddo. Nessuna prova inoltre è stata fornita della sofferenza degli animali. Per gli imputati l’auto non è un luogo insalubre in cui detenere due cani, anche perché capace di proteggere dalle intemperie.

Detenzione incompatibile con la natura dell’animale

La Cassazione adita, non condividendo la tesi difensiva dei due imputati, respinge i ricorsi perché non li ritiene meritevoli di accoglimento.

Per la Corte, l’abitacolo di un’autovettura, anche a volerlo ritenere confortevole, è comunque sempre diverso dall’habitat naturale in cui dovrebbero essere detenuti i due animali, senza contare il tempo di stazionamento dentro l’auto e il contesto generale.

Anche a prescindere dalle sofferenze fisiche, non si può certo trascurare l’esperienza vissuta dai due animali in rapporto alla loro sensibilità, aspetto che la norma vuole tutelare, preservandoli da condizioni di detenzione o custodia in grado di cagionare una sofferenza superiore alla soglia di tollerabilità.

Occorre inoltre sottolineare che la norma, che contempla un reato contravvenzionale, non richiede ai fini della punibilità, la volontà da parte dell’agente di recare sofferenza all’animale, bastando la colpa.

Il giudice di merito, per gli Ermellini, ha ben valutato gli elementi probatori a sua disposizione deducendo che, a causa dello spazio ridotto, dell’assenza di ciotole per l’acqua e del freddo, i due animali abbiano patito gravi sofferenze. Sofferenze per le quali non occorre prova, potendo desumersi dal contesto, come ha correttamente concluso il giudice di merito, che ha rilevato la mancata adozione delle accortezze necessarie a soddisfare i compiti di cura degli animali al fine di garantire il loro benessere.

E’ in pratica dalla incompatibilità delle condizioni di detenzione con la natura dell’animale che deve desumersi la sua sofferenza e poiché tale elemento deve desumersi dalle condotte che incidono sulla sua sensibilità, è stato sufficiente appurare la condizione di nervosismo dei due cani accertate dai verbalizzanti, per giungere alle conclusioni a cui è arrivato il giudice di merito.

Fonte Studio Cataldi